#01 Preludio

Donna davanti a uno specchio, 1922, Maria Blanchard. Immagine tratta da https://ragazzedimezzastagione.wordpress.com/

Quando immagino la morte, mentre scrivo, non sono angosciato. Le scene macabre con devastazioni e annessi, sono riflessi un po’ folk e i cavalli sormontati da enormi scheletri armati di lunghe falci, sono in deposito nella mia esigua cultura letteraria, e adire il vero, fanno un po’ sorridere. La costruzione che ci facciamo di un’esperienza è sostanzialmente condizionata dalle immagini, dalla finzione letteraria, da quello che ci racconta “qualcuno” o “qualcosa”, ma che non è quel “qualcosa” o quel “qualcuno”. Ciò che si avvicina al vero, ad una rappresentazione che non sia allucinata,  è sempre un po’ laterale. Occorre cambiare sempre prospettiva, posizionarsi “in un altrove”, fuori dai margini della consuetudine, per poter in qualche modo cogliere i dettagli meno eclatanti ma più connotanti, per sbirciare dietro la maschera approfittando da un momento di distrazione.  Ecco, facciamo un esempio, se devo ritrarre una persona non posso affidarmi alla sua narrazione ( quella fatta di bio di Instagram e neppure quella sintetizzata nell’outfit), alla finzione che questa persona fa propria per essere. Mi devo invece concentrare sulle mani, su come le muove, come le usa per destreggiarsi, per dire e omettere. Oppure osservarla mentre dorme: immersi nel sonno assumiamo espressioni buffe che spesso sconfinano  nel ridicolo ( se non nell’orrido); ma sono genuine, sono il riflesso del sogno, non hanno filtri. Straordinario è poi il poter osservare le persone da sole in auto, un luogo in cui siamo in vetrina ma nel quale pensiamo di essere sostanzialmente soli. Fantastico.

Ecco ho cambiato prospettiva nell’immaginare la morte, considerando che questo diario parlerà sostanzialmente di essa. Me la immagino così: una signora sulla sessantina, ancora piacente, anzi, desiderabile, curata. Il volto pulito con un accenno di invecchiamento tenuto sotto controllo, in particolare sul collo. Lo colgo perché è mobile ma nel contempo delicata con il capo. Fa movimenti calibrati ed eleganti, quasi impercettibili. Non si scompone mai. I suoi occhi sono quasi neri, non perché la morte sia terrorizzante; qui intendo quella intensità dello scuro che porta lucentezza. Si trucca sobriamente, perché a lei non interessa piacere a nessuno, ma non è sua intenzione neppure terrorizzare. Non è come la Sofferenza, la Violenza; loro hanno tratti più espliciti, più carnali, quasi porno. La signora Morte ( da ora con la maiuscola perché è una conoscente) ha un volto distinto ed un trucco leggero, ben dosato. Sorride amabilmente per compiacere o per gentilezza, ma non è mai lei la causa del sorriso. Lei è amabile nella conversazione, ma non fa ridere nessuno. I capelli sono ramati tendenti al rosso, ma non sono troppo lunghi, ma ben composti in un’acconciatura molto sobria. A volte li raccoglie in uno chignon basso, ma solo quando è sola. La morte è una signora borghese degli anni Settanta, ha capito che il mondo sta cambiando e i suoi tailleur introducono ora i pantaloni e si concede piccole “immoralità”, come fumare e lasciarsi sedurre dagli sprovveduti. I movimenti delle sue mani sono sempre studiati, non ha mai tentennamenti, anche nello stare completamente ferma. Fissa un punto durante le conversazioni, un punto lontano oltre la testa di chi parla, sembra vedere cose non rilevanti, ma da attenzionare. La morte quando beve un caffè ( che trova volgare) o una bevanda, lo fa sempre con garbo, con innocenza ostentata e dimessa: la falsa modestia di chi detiene un potere grandissimo e lo esercita da tempo, ma non lo può dar a vedere, perché è questo che fa la paura del potere, l’affermarsi con un sorriso anziché con una minaccia. La signora Morte sorride quando deve, ma quando lo fa è bella da morire. Veste pastello, scarpe in pelle, eleganti, sempre, comode ma non scurrili. Non ha gioielli vistosi, ma porta gli orecchini in modo straordinario, come se non ci fossero o fossero lì per caso, non penzolano mai, come se fossero immobili. Sono luminosi ma non sfacciati, sono nè piccoli  nè troppo grandi: sottolineano una presenza, circoscrivono un volto adorabile. Il rossetto è accennato su due labbra appena socchiuse, le labbra di una donna quando deve dire qualcosa di fatale ma attende il momento propizio. Le sue labbra sono sempre accarezzate da un rossetto, sempre rosso, magenta preferibilmente il pomeriggio, vermiglio la sera, quando si sposa con i suoi capelli. Il rosso sulle sue labbra sembra essere mai appagato. La signora Morte è  stata giovane, desiderabile, carnale, viscerale, sensuale, lucente, arrogante di vitalità. Lo era perché un tempo la si osservava passare lontano, sulla sua Fiat 130 Coupé nera, sempre lucida, pulita, sfavillante, come l’abbondanza d’anni. Ora è una donna importante, vissuta, ben collocata e rispettata, scolpita di imperfezioni che la rendono bellissima. È una donna piacevole che riempie una stanza con la sua eleganza, ma di cui ci si dimentica vivendo. Un’amabile presenza con la quale conversare risulta superfluo, dopo i convenevoli concede solo il respiro profondo, l’aria calda che effonde con regolarità, mentre i suoi seni maturi inturgidiscono una camicia di seta bianca, pulita, sobria, con un colletto dalle punte mai sfacciate, una spilla demodè, forse un lascito d’amore, che lascia intravedere la pelle, un tempo luna, oggi spiaggia.

Così è la signora Morte, bellissima, discreta, garbata, eterna e volatile.