Il mare, la storia, la luce e la metafisica
Sento forte il bisogno, l’impellenza di scrivere, di raccontare il mare.

Il mare, la storia, la luce e la metafisica
Sento forte il bisogno, l’impellenza di scrivere, di raccontare il mare.
Sabato sera sono andato a messa. Ora ci vado non più perché devo ma perché lo desidero. Mi rasserena il sacro che respiro nella penombra della chiesa vuota e oggi la Parola ha intrecci diversi che disvelano la divina umanità di Dio.
Spesso mi perdo nei miei pensieri, navigo altrove, ma qualcosa (che non so spiegare nemmeno a me stesso) si ricompone e mi riporta nel contingente della liturgia. Quando ero più giovane non mi capitava: erano o grandi slanci o terribili precipizi che si intervallavano nell’attesa del dono dell’avvicinarsi del Passaggio. Non avevo una “mezza misura” spirituale.
Il curato con il suo acerbo entusiasmo ha iniziato l’omelia. Il vangelo era quello dell’incredulità di Tommaso. Il giovane prete inizia così:”Ma voi, non avete mai avuto un dubbio? Non vi siete mai chiesti se tutto è vero?”. Folgorante! Non me lo sono mai detto, l’ho pensato tanto. Non ho mai avuto lo spudorato coraggio di ammetterlo a me stesso.
Spesso il dubbio mi accompagna, mi assale e demolisce i fragili castelli del mio percorso spirituale. La fede è uno stato di grazia, il dubbio una certificazione di umanità, e io sono molto, molto umano…Le parole del giovane predicatore pieno di vita e sussulti, hanno aperto un varco. Mi sono chiesto: “Ma il dubbio è nemico o no del credente”. Una domanda come questa, un tempo, avrebbe ricevuto una risposta ideologica, totalitaria… Ora sono più benevolo e misericordioso, amo i dettagli e mi spaventano i picchi e le gravità.
Il dubbio mi ha fatto crescere come creatura. Le certezze assolute, acritiche, il dentro o fuori invece mi hanno adulterato l’esistenza. Umanamente l’integralismo mi ha inaridito. Sto riscoprendo la mansuetudine. Amo pensare che il dubbio non è una presenza dentro il labirinto, ma la via alternativa, angusta e panoramica per uscirne.
Venerdì Santo. Il vuoto spoglio e lugubre della navata della chiesa oggi mi suona nuovo. Mi penetra nel profondo. Il Triduo è sempre stato un evento che ha animato la mia bucolica infanzia. Un’epifania di segni incomprensibili che mi affascinavano. Sin da bambino sono stato educato alla fede cattolica. Una fede rustica e solida, con un senso del peccato forte e ben radicato, una presenza del sacro che non illuminava ma si spandeva come fa l’incenso denso nelle sacrestie. Da lì una ricerca continua, una sete vivida del Dio vivente.
Ma la mia vista si è affinata con gli anni, fermandosi sulle contraddizioni e non sui dettagli. Da quel momento un crescendo di vicoli ciechi, slanci feroci che si vestivano più da ideologia che di abbandono vero, cioè una fede fatta di una relazione che profumasse di Dio.
Alle contraddizioni ci si abitua. Poi oggi, il sabato Santo, non come gli altri, vivo una novità. Le campane che squillano senza esitazione ed accompagnano un risveglio. Ho cercato in terra ciò che stava in cielo. Ma Dio non lo ho ancora incontrato. A volte penso che si nasconda per accompagnarmi o studiarmi, altre volte che sia impegnato altrove, in qualche galassia lontana a ritentare la creazione di un’umanità che si fondi sul Vero e sul Buono, sull’Amore che tracima ed investe, riempiendola, la realtà. Dio si nasconde e non lo scorgo in alcunchè.
Oggi mi sono confessato. Lo faccio spesso, forse più per abitudine o dovere: non distinguo più la differenza.
Oggi mi sono confessato da un prete che è un amico, un fratello. Il suo abbraccio, le sue lacrime trattenute, la dolcezza delle sue parole sono state una rivelazione profonda. Se Dio si nasconde, un uomo di Dio mi ha abbracciato trattenendomi nell’Amore che ha vinto la morte ed effonde eternità. Oggi, qui, con la mia bambina ululante di gioia al canto del Preconio, Dio non lo vedo ancora, ma sono certo che è qui, tra gli sguardi illuminati, nella frenesia eccitata degli attori della liturgia, nei silenzi che ci consegnano ad un Amore immenso, donatoci per Grazia, un Amore disteso su una croce scandalosa, per essere universale. Non merito nulla, mi sento semplicemente amato, da sempre e per sempre. La mia Pasqua di resurrezione, oggi, mi ricolma di vita.
Mi ha molto colpito la vicenda di questo uomo innamorato che al funerale della moglie, uccisa da un suo studente, nel pieno di una tragedia incomprensibile ed inaccettabile, inizia a danzare con lo spirito della sua donna, in una poetica solitudine.
L’amore rende eterna ogni cosa.
Quando pensi di saper tutto dell’Amore o di conoscerne le costellazioni,
per un viaggio sereno, senza sorprese o impicci,
ecco la Vita che sprizza del blu, del viola e turchese,
e si nega alle parole e affossa le pretese.
Cerchi nelle cose che contano, i dettami del Vero,
ma nei capricci e nel “balzano”,
negli intrugli e nei pasticci dell’inatteso,
si occulta non il Vero, ma l’umano.
Davanti all’addio ecco che ballo, da solo,
col tuo fantasma dai capelli rame venati d’oro,
con le tue labbra socchiuse, la tua vita Altrove,
la tua Vita tinta di cobalto e di luna
spezzata, muta e sorridente
che lascia un manto di parole.
La tua assenza mi muove, il tuo sorriso commuove
e trafigge il me che resta,
il legno lucido e fermo,
conserva ciò che di te non è più;
quello che sei sempre stata
mi prende la mano, iniziamo il ballo,
iniziamo il passo,
io da solo in questo mondo,
in due dove da sempre ci amiamo.
Sbattono di gioia e stupore,
i nostri amici, e l’insensato
sbigottimento del dolore,
di un morte che non ragione,
che non ha sentimento,
né dignità, né magione,
e si trasforma, li abbandona:
anche loro sono neve che galleggia
che si posa leggera, accarezzata non so più da cosa.
Anche loro, Amore mio dolcissimo,
fanno lo stesso, danzano
con i loro corpi stretti,
con parole soffuse,
con lacrime copiosi nei gretti
degli occhi, con imprevista
gratitudine per l’amore rimasto,
che ci lega nel nostro ultimo,
leggero, giro di danza, qui dove c’è solo
desolazione e la tua foto luminosa
sotto un cielo biancastro.
La tragedia e la finzione
Ci sono cose difficili da accettare. Sicuramente la morte, soprattutto se tragica, è una di queste. Ma, con lo sforzo della ragione, è comprensibile. Rientra in quell’insieme di vicende che potremmo definire “ineluttabili”. La morte fa parte del nostro percorso e questa idea, piaccia o meno, la dobbiamo far nostra.
Più spigolosa è l’accettazione che la morte possa avvenire in modo così scontato, banale, per una serie di circostanze facilmente evitabile. L’assurdità rende la morte insostenibile ad ogni pensiero.
Il naufragio di Cutro è l’ennesima rappresentazione della morte come “accaduto” intriso di assurda fatalità. La fatalità, sì, risulta irritante, molesta, quasi angosciante. Morire così è un dolore forse maggiore del morire stesso.
Quelle vite potevano essere salvate. Vi era un rischio, certo, ma l’imbarcazione era a poche decine di metri dalla spiaggia.
Potrei qui adesso perdermi in banalità e scemenze, congetture, moralismi e tutto il resto. Mi rimane lo sgomento e il dolore per le immagini e le parole dei testimoni impotenti che tratteggiano il naufragio. Sono feroci, graffiano la mia coscienza. L’evidenza basta.
Mi è intollerabile più di ogni cosa il postmortem.
La cosa che mi risulta insopportabile è la disumanizzazione. Davanti ad un fatto simile, chi non prova nessun dolore non ha nemmeno la decenza di starsene zitto oppure affrontare questo fatto sanguinante con un minimo di decoro.
Il punto è questo: non c’è più contegno (parola così desueta ma attualissima). “Se ne stiano a casa...”, “Se rischi può succedere” oppure “Se la sono cercata …”, come se si stessa parlando di semplici questioni risolvibili con una conciliazione qualsiasi, un tamponamento, un problema di vicinato, il disturbo di un cane molesto nell’appartamento adiacente. Lasciamo in pace i vecchi matusa (Feltri mi fa tenerezza), e con tutto il rispetto dovuto ricordiamoci che hanno sempre detto quello che colava dalla testa senza filtri, ed invecchiando non possono che peggiorare. Ma la gente comune, le istituzioni, l’umanità libera dall’arteriosclerosi, dovrebbe porsi diversamente.
Dovrebbe l’umanità essere umana.
Non c’è più il senso di gravità. La tragedia è un’esperienza che non viene più raccontata e di conseguenza non viene neppure compresa. Purtroppo viene ridicolizzata.
Abbiamo smarrito la percezione della complessità. Le persone che sono morte a causa delle onde fameliche del mar di Calabria, non sono sprovveduti che hanno fatto un azzardo, non sono avventurieri, non sono quello che i “non umani” raccontano.
I corpi ripresi dalle telecamere del TG esprimono la crudeltà del destino e l’accanimento dell’ingiustizia tra la pubblicità di un sugo pronto e di un’auto elettrica, il tutto seguito poi da un servizio sulla Fashion Week milanese o le imprese calcistiche del momento. Un beffa alla memoria. Tutto passerà sommerso dal flutto del nulla di cui ci nutriamo, inghiottito dal mare dell’oblio. Il naufragio subirà un altro naufragio, nel mare della memoria.
La nostra umanità ha bisogno di vagliare le cose, di darle un ordine, un gerarchia. Non possiamo considerare alla stessa stregua tutto, la morte innocente di disperati, la chirurgia plastica, le finte pene amorose costruite a tavolino degli influencer di turno… Le cose sono diverse, la diversità delle cose ci fa vivere il senso della tragedia e lo distingue dalla commedia, dall’ordinario. C’è la tragedia che si accascia sull’umanità e poi c’è la leggerezza, meravigliosa, ma è un’altra cosa.
È una questione di sensibilità, di gusto. Il dolore e lo sbigottimento, se non sinceri, almeno dovrebbero essere travestiti con la decenza, il rispetto, l’intensità del ruolo, con “istituzionale”e credibile cordoglio. Siamo capaci di orazioni funebri meravigliose da tenersi al funerale di sconosciuti, di persone che magari in vita abbiamo detestato. Se non viene naturale l’essere umani, è auspicabile il silenzio per non compromettere la finzione.
Il silenzio disarmato davanti al dolore, il silenzio che alimenta una reazione e l’indignazione è l’auspicio che faccio al genere umano. Per il pettegolezzo c’è tutto il resto. Il quadro all’inizio rappresenta un corpo che osserva le stelle. Il Cielo ci ispiri ad essere migliori, ad essere veri, ad essere “tragici” nel senso più alto.
Oggi ha scuola ho parlato dei “classici”. Andava fatta un’introduzione alle “Notti Bianche” di Fëdor Dostoevskij. Certi incontri hanno qualcosa di religioso. Siamo partiti da Walt Whitman per arrivare a Zerocalcare per poi tornare indietro a Platone e “l’immagine della Caverna” (così faccio contenta la mia professoressa di filosofia antica). Poi Lindo Ferretti con “Amandoti” sino ai Måneskin insieme ad Agnelli. Un tour del classico inteso come esperienza artistica che torna, inesorabile, perché costitutiva della nostra identità, del nostro DNA come uomini e come creatura alla spasmodica ricerca di un significato oltre il visibile.
Il visibile, la sua essenza, la realtà… La realtà e quello che le sta dietro è un assillo. Le parole, la storia con il suo intreccio, sono per me un pungolo costante ogni volta che sento e vedo qualcosa. “Ma è così?”, come il tintinnio di un orologio antico mi ritorna. Quando la domanda mi si presenta, di scatto mi si accavallano altre questioni, un’onda di dubbi vivi e vegeti, di graffi, che invocano ascolto: “Sono uno o sono una legione?”, e poi con inesorabile ferocia, “cos’è il vero, dove finisco io ed inizia l’altro?”.
Domande, voci, richiami, l’eco lontana di presenza che mi chiama ma non mi trattiene. Quando la schiuma viscida di questa onda sbatte nella parete della mia testa, lascia sedimenti cristallini, rosei, “schiumosi”, anzi, della stessa consistenza della panna smontata.
Mi guardo attorno per capire, per fuggire da certi accostamenti assurdi, gettandomi in un caleidoscopio d’intenzioni: “vado, faccio, ora parlo, ora ascolto”, tutto per interrompere la mareggiata nella testa. Un gracchiare inutile, un penare che alla fine mi lascia così sterile.
Questi pensieri mi ondeggiano in testa mentre spiego ai miei ragazzi l’essenza di un classico.
Vado a dormire. Il sonno porterà bonaccia.
Mio padre ha novant’anni. Mio padre è sazio d’anni. In questi giorni ha avuto uno scompenso cardiaco che lo ha portato in terapia intensiva. Questa sera mentre lo guardavo respirare con fatica, sollevare il suo corpo possente ma ora stanco, le parole si sono cagliate nel cuore e sono fluite come il respiro.
Stringo le tue mani legnose,
Fatte di pelle macchiata d’inverno,
Ho sentito il rovescio della vita
Lo sbriciolarsi dei ruoli:
Tu incartocciato negli anni,
Io accasciato sulla poltrona
Imbottita di soffici certezze.
Mi sento lontano,
Ti sento estraneo.
Perdonami papà,
Io ti ho perdonato.
La stanza è una bolla bianca
Dove trillano i beep
E si intrecciano i fili,
A cui è appesa la vita.
Il silenzio si fa spugna
E si beve le cose
Che non ci siamo detti,
La paura di piangere,
Le fughe dallo scontro,
Le incomprensioni necessarie.
Ti perdono papà,
Io ti ho perdonato.
Non conta più la diversità,
La paura dei tuoi timidi occhi
Che vogliono fermezza,
La mia rabbia e la mia fuga,
Per poi tornare qua.
Siamo stati lontani senza saperlo,
Ci siamo cercati senza volerlo.
Ora sono a vegliare il tuo respiro,
rauco e nebbioso,
come l’aria dell’aurora che tu conosci.
Perdono papà,
Io ti ho perdonato.
Ci siano disconosciuti
Tu per la terra ed io rapito dalle nuvole.
Siamo lontani ma ora il nostro fiato si mescola.
Non bastano le parole,
La tua voce impastata
Gorgheggia ricordi,
Inutili pleonasmi,
Chincaglierie senza intelletto,
Esperienze in cui scorre sangue vero.
Perdono,
Io ti ho perdonato.
Ora che una pace non dichiarata
Presidia il nostro stare insieme,
Misuro la distanza tra noi,
Un vuoto senza memoria oramai,
Una storia scritta
Senza le parole “importanti”
A cui, da una vita, ho dato la caccia.
Carissima
Ho letto il tuo scritto. Anzi, per la precisione me lo sono letto due mesi fa, poi l’ho lasciato decantare. Ora l’ho riletto, cercando di cogliere ciò che la tua scrittura voleva dirmi.
Non sono uno scrittore, o meglio, scrivere non è il mio lavoro. Ma amo la scrittura ed amo leggere. Mi dà grande gioia assistere allo svelamento della parola che avviene leggendo. I miei consigli saranno quelli di un buon lettore e non quelli di un editore, o addirittura, di un correttore editoriale.
Partiamo con ordine. Mi piace la scrittura breve, asciutta, lineare, che sa nascondere il molto dietro il poco. Le gradi architetture sintattiche non mi hanno mai entusiasmato, se non in rari casi, come i grandi geni della letteratura francese e in particolare russa. Il tuo approccio asciutto e diretto quindi mi piace, lo trovo snello e rilassante. Il tuo stile di scrittura è un invito ad andare avanti, in scioltezza, con la serenità di chi capisce dove il percorso stia piegando. Ma questa scelta porta con sé un pericolo: la “scontatezza”. Mi spiego meglio. La scrittura deve essere docile alla lettura, ma creare inquietudine. Le storie interessanti lasciano sempre un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Un buon scrittore non da risposte, ma genera domande. Un ottimo scrittore non dà pace con le sue parole, ma genera tempesta. Per questo ti invito a progettare i tuoi racconti in modo nuovo. Prima di scrivere fai tua la storia, in generale. Non perderti nella ricerca dei dettagli. Devi cogliere il sangue della storia, l’energia. Una volta fatto tuo tutto questo, usa le parole con la prudenza di chi non vuole dire tutto, ma lasciare uno spazio d’ombra. Le parole non svelano improvvisamente, lasciano intendere, disvelano in minima parte, evocano e non declamano.
Il secondo consiglio riguarda il destinatario. Per chi scrivi? A chi è destinata la tua scrittura? Per un buon testo bisognerebbe aver chiaro il destinatario di un nostro scritto. Questa è una prassi necessaria per un prodotto completo, ordinato, organico che abbia un obiettivo. Se invece vuoi provare l’irresistibile gioia della creazione letteraria, devi scrivere per la scrittura stessa. Banale come affermazione? No, in realtà è terribile. Perché lo scrittore si lascia divorare dalla sua stessa fame, il bisogno di riversare la vita nelle parole non troverà mai sazietà. Questa è una condanna. Si tratta di un’esperienza d’amore che prosciuga, a volte a tal punto da sentirsi inariditi. Lo scrittore non è mai in pace con le parole che fissano la vita. Questa è una via obbligata. Senza il dolore dell’incomunicabilità, la pena dell’indicibile, le parole sono prevedibili, sono silenziose, sono piane, sono morte. Scrivi per la scrittura, vivi un’esperienza che celebra sé stessa. Non pensare ai concorsi, non pensare alle gratificazioni, non pensare alla storia. Il raccontare deve essere qualcosa di vitale, un assillo che affligge ogni tua giornata.
Se sopravvivi a questo, possiamo ragionare su un altro suggerimento (non consigli, li trovo stucchevoli, mentre un suggerimento è figlio dell’istante, il consiglio viene partorito dalla ragione …).
Trova un compromesso tra le parole che vogliono essere ascoltate e la vocazione dello scrivere per scrivere. Per giungere a questo punto devi maturare, esercitarti, confrontarti, accettare le critiche più feroci (spesso le migliori), sino a che non sarà tua la tecnica e il controllo di queste due forze che cercano di prevalere l’una sull’altra: la parola e il desiderio dello scrivere. Dovrai imparare qui ad essere una buona artigiana. Le grandi opere sono frutto di una continua mediazione tra forza e misura, un compromesso tra tecnica ed energia. La misura che raggiungerai, ti sarà naturale. Compromesso significa rendere accoglibile ogni parola preservandone il mistero, rendere intrigante ogni frase mantenendone l’intrigo, rendere luminoso il pensiero, conservando l’inquietudine che si coagula nel momento in cui si fa la “chiusa”, con il punto, con la fine di una frase, che in realtà è un nuovo inizio.
Per concludere, ti invito a scrivere sempre: pensieri, osservazioni, fatti strani, persone che incontri sul bus, sul treno, in centro. Porta sempre con te un taccuino per scrivere. Anzi, il tuo primo taccuino te lo regalo io. Portalo con te e imbrattalo con la tua vita. Osserva e scrivi la vita e da lì fai germinare la tua storia. La Vita è una fonte inesauribile d’ispirazione. Impara ad osservarla e a raccontarla. Sarai così una brava scrittrice. Non smettere mai di leggere. Uno scrittore è in primis un grande lettore. Immagina la letteratura come una lettera di un soldato ferito al fronte, consegnata ad un commilitone, ad un altro, ad un altro ancora, sino a che non giunge a destinazione. La letteratura è un passaggio, la vita è la storia, la scrittura è quella lettera.
Ti lascio con le parole di Rainer Maria Rilke, tratte da un libricino che devi assolutamente leggere, una bussola per chi ama la scrittura e vuole vivere per essa.
“Non posso che formulare una volta di più l’augurio che entro voi stesso troviate abbastanza pazienza per sopportare e abbastanza semplicità per credere. Affidatevi sempre di più a tutto ciò che è difficile ed alla vostra solitudine. Per il resto lasciate fare la vita. Credetemi; la vita ha sempre ragione.”
Lettere a un giovane poeta, Rainer Maria Rilke
Buona scrittura.
Da bambino avevo strane sensazioni. Mentre giocavo, all’aperto, nei pomeriggi assolati d’estate, mentre mamma e papà si riposavano al fresco dopo pranzo, sentivo le cose cambiare. Voglio precisare una cosa: la mia era una sensazione fisica. Nulla di filosofico, sciamanico od altro, almeno credo. Avevo la sensazione, anzi, la percezione, che le cose che mi circondavano, nel cambiare stato, facessero un rumore, un vibrazione ed io la sentivo. Sentivo il rumore della foglia che si secca, del filo d’erba che cresce, del grillo che cambia, invecchia, muore, Non avvertivo gli effetti di uno spostamento, ma il procedere del cambiamento, il flusso della vita. Lo ricordo molto bene. Ero presente e la mia presenza era viva nel Tempo. Dopo una corsa, inseguendo una lucertola od uno dei cani della nostra fattoria, mi fermavo, improvvisamente, per sentire il sangue pulsare nelle vene, il cuore muoversi, le ossa allungarsi. Suggestioni di un bambino di cinque anni. Può darsi. Ma il ricordo di quella sensazione è chiarissimo. Poi? Poi ho smesso. Non ci ho fatto più caso, non mi interessava più. Volevo giocare con la palla, imparare ad andare in bicicletta, guardare la TV. L’esperienza del cambiamento che il tempo genera in ciò che vive, ha lasciato un’impronta ed ogni tanto ci inciampo. Molto nitida è la sensazione della luce, come questa entrasse nelle cose, nel mio corpo, nelle piante. Chiudevo gli occhi e la luce spingeva per entrarvi. Una sensazione pervasiva che mi faceva sentire in parte violato, in parte accolto. Ripensandoci oggi, mi faceva sentire “facente parte”. Le parole purtroppo non bastano.
Oggi mi sono ritrovato nel solito ingorgo nel traffico. Quando accade due sentimenti si avventano su di me: la rabbia del rallentamento e dall’altra parte la gioia atipica che mi viene dal poter osservare la gente nelle proprie auto.
L’auto diventa una specie di stanza segreta, nella quale ci si dimentica di non essere completamente soli; nel traffico possiamo pensare ad uno stato di autonomia, di solitudine momentanea, ma ci inganniamo. Il mattino, nella propria auto, siamo in vetrina: il mondo ci vede ma noi pensiamo di essere invisibili.
Per questo ho pensato di riportare il mio diario su un blog aperto anni fa su cui scrissi pensieri disordinati ed inutili. È oramai desolato e non frequentato neppure da me. L’idea mi stuzzica. Nascondere nel luogo più visitato ed abitato del pianeta le mie parole fissate con l’atteggiamento di chi in macchina pensa e si perde senza accorgersi di essere visto. Questa mattina una signora giovane con un cappello che mi ricordava Truffaut stava parlando, penso da sola, con animosità gesticolando con l’interlocutore materializzato nella sua immaginazione, tra la plancia e il sedile. Un ragazzo stava fumando una sigaretta con lo sguardo vissuto di chi pensa di aver già visto tutto della vita. Un artigiano sul suo furgone macinava un panino con la soddisfazione di un coyote. Un signore distinto osservava l’abitacolo immacolato godendo del suo status sociale, mentre il figlio, immagino, a lato si scaccolava come se non ci fosse un domani. Umanità fissata in una vetrina, come delle bambole di porcellana immobilizzate in un momento esatto della loro esistenza. Un lampo di umanità nel fragore del traffico mattutino. Così le mie parole le immagino come delle lettere mandate la mondo senza un destinatario. L’ostinazione della Dickinson a scrivere per il solo amore della scrittura mi sia compagno in questo viaggio. Spero solo di averne la costanza. E l’incoscienza.