SEQUERI

POESIE 1992 – 2010


DEDICA

A mia nonna

Che mi ha cresciuto

Con la durezza dei contadini

Ed il calore

Delle lenzuola felpate.

A mia madre,

Che mi ha rincorso per anni,

Ed ora mi aspetta,

Per un pomeriggio,

Per un po’ di fresco,

Nei suoi grandi occhi lucidi.

A quelle che ho amato,

Tra il serio e il distratto

Hanno dipinto di giallo

un angolo della mia storia.

A Debora che mi accolto

Con tutta la fragilità del mondo

E mi ama con tutta la forza delle donne.

Grazie alle mie stelle,

Che luccicano in un cielo inquinato di luce:

A Maria Chiara che mi consola,

A Benedetta che sorvola il mondo,

A Miriam e alla sua forza

E Rachele che mi guarda

Col suo musetto tondo.

A Sosina,

Che cambia tutto in meglio,

E segna le coordinate

Della giustizia che mette radici

E della pace che regna.

A tutte le donne della mia vita,

Quelle amate, sconosciute, stimate,

Passate come la neve marzolina,

Tenaci nel ricordo, feconde nella vita,

Come la terra inviolata.

Grazie, con la gratitudine del ramo,

Ad aprile, dopo mesi di brina.


DEDICA POSTUMA

Alla vita e ai suoi doni.

Un’epifania di cose belle non dette,

di ritorni immediati di Senso,

di sentieri già percorsi da altri,

che attendono un nostro segno,

sulla corteccia o su una roccia.


INTRODUZIONE BENEVOLA

Ad un certo punto si possono fare degli azzardi. Si attendono delle giustificazioni per farlo, oppure la stagionatura del coraggio. Sta di fatto che ad un certo punto, riordinare un magma di vita diventa un bisogno fisiologico, una funzione da espletare. Da sempre, sin da bambino, vivevo con disorientamento la pulsione a trasformare in parola le emozioni che mi avvolgevano, mi inghiottivano. Mi sono sempre sentito infinitamente piccolo rispetto alla vita che mi ha sovrastato. Questo sentimento forse dipendeva dalla grandiosità del cielo che si stende sulla mia terra, un azzurro capace di infuocarsi dei calori più intensi del giallo e dell’arancione, nei tramonti che si tuffavano nel piatto dell’orizzonte che circumnavigava la mia casa. Ora questi sentimenti sono entrati nell’ordinaria amministrazione, ora li governo. Ad un certo punto, con l’età della ragione non assoluta, ho potuto accompagnare questo istinto al raccontare il mio mondo con il “verso”. Ho acquisito un lessico che distilla scompensi dell’anima in una parola, pregna, satura, grondante, non commestibile a tutti. È un’alchimia che nasce non da un’istanza produttiva, ma dalla gioia della convivenza con il sublime e dalla connivenza con l’inatteso. Ho iniziato da artigiano a limare le parole, ad assaporare l’emblema dei maestri, a gustare la musica della sequenza del parlare e dello scrivere. Un’occupazione lunga, certosina, limitata all’inizio dalle mie radici vincolate al pragmatismo della terra, poi amplificata invece dalla confidenza con il silenzio, mio compagno di giochi sino all’età adulta. Una nascita lenta che ha visto la maturità dopo diciotto anni. Una sorta di contrappasso tra l’urgenza mia di scrivere e la lenta decantazione in attesa di un’autonomia del verso. Questa raccolta ci ha impiegato vent’anni per dirsi conclusa.

Ma perché scrivere poesie. Perché il figlio ambizioso, l’unico “studiato”, di una famiglia di probi agricoltori, contadini potrebbe suonare riduttivo, ad un certo punto ha cominciato a scrivere poesie in modo disordinato e poi ne ha voluto fare una raccolta? Ma la domanda che ad un certo punto mi ha crocifisso in attesa di una risposta è stata un’altra: cos’è per me la poesia? Sulla poesia si potrebbero scrivere fiumi di parole, tutte limitate nel saper e poter coglierne l’anima intima di questa. Molte sarebbero le parole che hanno altra paternità. Oggi che sono uomo, sono molto più infantile nel vivere la poesia. Non si tratta di un’esperienza letteraria, ma di una sintesi verbale del legame tra il sensibile e il sovrumano.

E la parola ne diventa il grimaldello, l’evocazione l’energia migratrice, ciò che ti porta dalla pagina bianca segnata dalla scrittura, all’universo delle emozioni e delle visioni. La poesia è naufraga nella memoria e nel contempo genera i ricorsi futuri.

Ho scritto sempre per avere un bussola, dei piccoli segnali, per tornare a quella visione che mi ha fatto scoppiare il cuore e da lì scrivere.

Ho scritto poesie per tracciare la strada per tornare a casa.

Cos’è la poesia se non una finestra sul mondo del non tangibile, dell’insondabile, del etereo che dà corpo al nostro transito?

Fissarla, renderla memorabile, è un atto d’amore proprio da condividere con il mondo. Non lo salverà, ma lo renderà un posto più famigliare e transitabile.

Per troppo tempo ho pensato che fosse un inutile esercizio speculativo, una perdita di tempo che nel contingente è limitata come ogni altro ingrediente del nostro vivere. Ad un certo punto mi sono convinto che non potesse che appartenere che a me, al mio piccolo mondo di ricordi ed emozioni inutili.

Ora sono abbastanza sciocco per portare in mio mondo al pubblico, per renderlo pane da spezzare nella condivisone del destino umano. Invecchiando si fa propria la pazzia della saggezza. «Cosa ho da perdere? Voglio lasciare un segno, una mappa, per tornare all’archè della mia iniziazione al dolore, all’amore, al piacere, alla morte, al cielo».

Nessuna velleità, solo il compimento sereno di un atto dovuto, il dissotterramento di un talento, prima che sia troppo tardi. Ho voluto rendere tangibile, narrabile, una fetta della mia vita.

MANIFESTO POETICO SEMISERIO

Si rende necessario un manifesto poetico in quanto della poesia se ne fa ciò che si vuole. Basta azzeccare due rime in preda ad uno stato di malinconia che già la corona di alloro impera sulla nostra fronte.

Da più di vent’anni lotto con questa pulsione, cercando di estirparla senza tregua, senza riuscirci. Un bisogno impellente, la ricerca di uno status sociale, oppure l’occasione per rivolgere lo sguardo in luoghi che corrono il rischio della desertificazione. Questa retrospettiva personale, di cui la poesia è garante, slava l’identità di ognuno. Ci rende ciò che siamo, meravigliose ed insignificanti creature alla ricerca di un senso. E se nel farlo incontriamo angoli ameni di felicità, ben venga.

Nell’architettura del nostro io, oltre l’identità, risulta fondamentale la dimensione del viaggio. Per essere chiari, non intendo il traguardo, la produttività che ci ha resi sterili, inadeguati, incapaci dell’ebbrezza della lentezza. Il viaggio è la dimensione della scomodità generata dalla nostra finitezza, dalla nostra incalcolabile limitatezza: sono mortale, per questo sono vivo.

L’elemento che ci rende “poetici” è il viaggio di andata, la sosta poetica, raramente il viaggio di ritorno. Giunti alla soglia, per quell’istante siamo poeti.

Il limite che invoca l’infinito è il medium che genera la poesia.

Invocare l’infinito! Questa invocazione viene nutrita dal sublime e dalla sua ricerca. La ricerca del sublime si è annacquata negli anni. Il materialismo, la scrittura che denuncia la degenerazione della società, la pornografia concettuale della scrittura “convincente”, hanno reso tutti noi contenitori di “raziocinio” industrioso e performativo, che alla lunga imbruttisce. Ci siamo scollegati. Paradigma di questa divagazione dalla ricerca del nostro originario, lo si può intercettare in Pier Paolo Pasolini. Dopo le Ceneri di Gramsci la sua poetica entra in uno stato asfittico. Ha usato uno strumento per denunciare dimenticando la sua infanzia, Casarsa del Friuli, quando la poesia era canzone, racconto della propria culla spirituale oltre che anagrafica. Dopo questa esperienza di smarrimento del fine della poesia (da esperienza a strumento), Pasolini ritorna all’intimità, alla sublime ricerca che cerca la vita. L’esperienza del poeta friulano mi è stata fondamentale per non ripercorrere l’errore di travestire la poesia in qualcosa che non è, cioè “l’impegno civile”. La narrativa, ove le parole si possono triturare e trasformare nella farina del confronto e dell’interrogativo, può svolgere questa funzione. Le narrazioni possono espandersi e creare mosaici di storie di uomini, è l’incubatrice dell’impegno civile, pensato oppure non cercato, ma vivo.

La poesia è intessuta di sospiri, dello spirito dell’attesa. Il tesoro poetico è nascosto in qualche indescrivibile parte del profondo. Questo marasma, per me, è sublime ed è lo spirito del sublime. Per essere più chiari, questo spirito esiste, è davanti agli occhi con la prepotenza dell’esserci, ma va cercato per essere accolto. È la capacità di leggerlo immediatamente che ci è preclusa all’inizio. Dobbiamo far cadere il velo dai nostri occhi.

Rilke mi ha convinto di questo. Se ne potrebbe parlare a lungo. Letteratura, arte, poesia, tutte in un qualche modo, hanno cercato di rappresentarlo.

Sicuramente il plasmare questo spirito, per dargli forma, ripetibilità, è necessaria una tecnica. Lo pseudo Longino, nella sua elementare compiutezza, nel trattato Del Sublime, ne è un maestro, una pietra miliare.

Sono certo che la sfumatura che più addice al sublime non sia un effetto, ma una dimensione, delle coordinate, una mappa di stelle. Imparare a scrivere una poesia significa compilare una mappa. In poesia, per quel che vivo, la ricerca del sublime è il racconto di un viaggio, fatto da una finestra a cui soli si può accedere. E nella solitudine la parola si fa compagna.

La tecnica in questo caso è piegata all’evocazione di questo viaggio, di questo volo. Rimando al libello sopra riportato gli spunti relativi all’arte e alla composizione. Ma prima di chiudere, un parallelo accattivante su come nella tecnica possa esserci il necessario per la creazione della mappa, l’uso della bussola, il necessario per condurci nel viaggio.

Mi riferisco in particolare all’amalgama delle parole per sintetizzare l’evocazione.

«Ma quel che nel discorso – non diversamente da quanto accade per il corpo – contribuisce in modo particolare alla grandezza è la connessione delle membra: prese una a una e isolate dal resto, di per sé sono prive di valore significativo, mentre tutte quante, ordinate in un insieme, costituiscono un sistema compiuto. Così le espressioni elevate, in questo e in quel luogo isolate le une dalle altre, si portano via, disperdendolo, anche il sublime; ma una volta riunite in un sol corpo, e rinsaldate dai legami dell’armonia, acquistano di sonorità per il giro stesso della frase; e nel periodo la grandezza è la somma di un fitto numero di contributi.» Del Sublime, cap. XL.

Nella trasposizione dello scritto fatta sull’esperienza poetica, rifaccio vivere il tema “dell’elevato” inteso come “sovrumano”, e il “sol corpo” come esperienza di viaggio unico, unitario, inarrivabile.

La poesia è un viaggio e le parole sono i sassolini, i monili, le conchiglie, il fiore secco e la cartaccia, che si raccolgono per strada,

Nessun deturpamento filologico, ma un ready made, della parola, che non ha mai un senso compiuto, ma è volatile come il tempo.

A prendermi per mano, per una consapevolezza feconda, è stato per primo Montale. Un poeta non laureato, un ragioniere prestato al verso, un intellettuale della non risposta, della domanda che rimane aperta, di una fecondità ripetuta, socchiusa per altre fughe, per altre carovane. L’ho conosciuto all’università da giovane e mi è rimasto incagliato nel cuore. L’ho amato con fatica. Poi mi sono fatto condurre nel suo mondo di semplici richiami. Una sua opera, nella raccolta Satura, racconta mirabilmente cosa sia la poesia:

LA POESIA

I

L’angosciante questione

se sia a freddo o a caldo l’ispirazione

non appartiene alla scienza termica.

Il raptus non produce, il vuoto non conduce,

non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.

Si tratterà piuttosto di parole

molto importune

che hanno fretta di uscire

dal forno o dal surgelante.

Il fatto non è importante. Appena fuori

si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:

che sto a farci?

II

Con orrore

la poesia rifiuta

le glosse degli scoliasti.

Ma non è certo che la troppo muta

basti a se stessa

o al trovarobe che in lei è inciampato

senza sapere di esserne

l’autore.

(da Satura, Mondadori, 1971)

La poesia non può cadere nell’inganno della novità a tutti i costi. Infondo la vita dell’uomo è sempre la medesima. Non lasciarsi toccare dalla vita, dalle bare, dalle bandiere, dai prati verdi che illuminano la terra, è impossibile anche oggi.

La vita dell’uomo è intrisa di ricerca e Dio è uno dei colpevoli.

Per nascita, per chiamata, per sensibilità, ho sempre avvertito una prossimità tra la poesia e il trascendente. Penso che abitino la stessa sfera celeste. Forse Dio parla in versi.

Negli anni ne ho sentito parlare con la retorica del poema risorgimentale, forse futurista, del detto per assoluto, «è così e basta!». Poi l’ermetismo degli anni in cui le cose non sono come appaiono mi ha scagliato altrove, una violenza che ho vissuto come ingiustizia.

Ma cos’è la giustizia? Significa non subirla. Ma con la disillusione la mia esperienza si è affollata di nemici. Che fare? Assecondare l’insegnamento del Vero? La poesia come esperienza di svisceramento di «che cos’è la verità per me?». Amare i propri nemici? Perché non combattere, non farsi “giustizia”. Il verso come spada, come alambicco che aromatizza l’odio, il rancore, la rabbia. Il Dio del Vecchio Testamento è terribile, ma forse più umano del Cristo. «Ama Dio ed ama il prossimo». Le frasi lapidarie mi hanno attrezzato per digerire i versi che io stesso vomitavo. Mi salverò? Nessuno è il prescelto.

Il sublime quindi come il contorcersi delle budella durante uno sforzo, quando le domande sono dolorose. Il sublime come dolore, come tensione, come forza.

Il sublime che è nella ricerca, la domanda, viene svelato, attrezzare gli occhi alla vista, e che si muove dentro. Ma nasce nel momento della ricerca oppur esiste silenziosamente nelle cose?

Il sublime vive in potenza nelle cose, nella natura.

Ma il sublime c’entra con Dio? Se c’è, sono fatti della stessa sostanza oppure il sublime è l’ombra di dio nelle cose?

O la poesia cade dal cielo abitato da Dio come obliviosa manna?

Una citazione decadente, dell’altro mio angelo tutelare, Baudelaire.

La poesia dalla perdizione può ricondurre ad un senso estemporaneo di appartenenza. Ci riporta a casa.

DE PROFUNDIS CLAMAVI

(trad. di Gesualdo Bufalino)

Io Ti chiedo pietà, o mio unico amore,

dal tenebroso abisso in cui sono caduto;

è un universo squallido e d’ogni luce muto,

dove nell’ombra nuotano la bestemmia e l’orrore.

Un sole senza vampe per sei mesi vi dura,

poi per altri sei mesi la notte occupa il suolo;

è un paese più nudo e inospite del polo:

né bestie, né ruscelli, né boschi, né verzura.

E dunque non c’è orrore che vinca sotto i cieli

la silente ferocia di questo sole gelido,

e questa immane notte, al vecchio Caos uguale.

Io invidio la sorte d’ogni abietto animale

che può felice immergersi in un torpore ottuso,

così pigro del tempo si sgomitola il fuso…

Se il silenzio arido è il meno tollerabile dei supplizi, la poesia è il tranfert che ci fa passare nella dimensione dello spirito che si eleva, dell’incontenibile.

Non si può non affermare che il rapporto o la negazione di un legame con Dio, il Trascendente, l’Assoluto non è basilare per la vita di ognuno. «Senza questa luce che illumina i miei pensieri neri» (citazione di Franco Battiato) cosa sarebbe il nostro percorso. La poesia è la lente che cattura, distorcendola, questa proiezione.

Concludiamo, altrimenti mi ritrovo a scrivere un altro trattatello inutile. Cosa è la poesia per me? Ricordo, navigatore e navigazione, evocazione, abecedario del Sublime, la vita occulta che frigge nel domestico, nel quotidiano, il kit per interpretare ad abitare l’Assoluto. Gli occhiali che mi fanno vedere in uno sfumato attenuato cosa c’è oltre.

Cosa ci allontana da tutto questo? La caduta e l’ozio argomentato benevolmente che ci pervade nella comodità. Esse sono nella nostra pelle, totalmente adese a noi, come esseri e come creature.

La poesia quindi, una volta smarrita, è il richiamo della foresta, l’urgenza di tornare a casa.

Sì, per me oggi è questo.

L’infinita inclinazione poetica è la nostalgia di un’ustione, come in Icaro e le sue ali sciolte perché lambisce il sole, oppure un sentimento di ritrovata quiete, la noia creativa nell’Eden, la terra del nostro essere figli mantenuti ed ignari.

Ma oggi siamo orfani e Dio latita anche nei prolungati silenzi in attesa di un suo cenno.

Lo status da orfano, di abbandono riconosciuto, è la divisa della Noia, fertile substrato per il verso. La ricerca di Dio come percorso che ci conduce all’inevitabile deviazione, per l’innata vocazione a perderci, ad un “Altrimenti” oppure ad un “Altrove”.

Baudelaire mi ha accompagnato in questa consapevolezza. Gesualdo Bufalino, con la sua narrativa sofisticata, me lo ha fatto amare.

La poesia dei due miei angeli, si è trasformata da frequentazione scolastica, dispotica e spesso opprimente, a compagna di giochi, grazie ad una lettura profonda, equivoca, alla francese, in cui il detto può voler dire altro.

L’incontrarli capendoli a metà, forse, nella mia vita mi ha permesso di dare un vestito calzante alla ricchezza e l’infelicità del sentirsi diviso.

La passione è stata più di una scoperta stilistica, un’amicizia postquam, tra due che non si sono mai incontrati ma si conoscono bene.

Leggere la realtà sotto la specie dell’equivoco, della dissonanza, della separazione è una bella esperienza.

Avere una vita felice e provarne angoscia? Mi capita spesso. La poesia non è come un escremento, un’evacuazione di questo stato. Scrivere poesie ed essere infelici è un assioma positivistico. La poesia da dei ritorni, dei rimandi, ma alla fine, sono parole che traducono a volte, altre edificano la vita.

RIFLESSIONE CASALINGA SULLA PAROLA E LA METRICA

La metrica è stato un assillo. Alessandrino, endecasillabo, versi brevi (settenari), sonetto o verso libero? Un dibattito interiore nato più che da questioni estetiche ed accademiche, dalla lenta scoperta del senso della musica e del suo sposalizio con la parola.

Da stimolo incontrollato da fissare su un pezzo di carta sono passato un’esperienza vissuta, quasi partorita, che ritorna alla “mente artigiana” della nostra cultura, al lavorio di cesello di una polifonia delle emozioni controllate e misurate.

Alla fine, dopo decenni di riletture, sono giunta alla sintesi di un metro ragionato, per quanto si possa, inseribile nel corso della canzone delle emozioni.

In venticinque anni ho lavorato “sfregando” le parole, meditandole, rivivendole nei nuovi contesti delle mie stagioni. Varie sono state le limature, selezioni, riflessioni certosine e dannate su ritmo e parole. Perché le due sono legate da un rapporto dialettico conflittuale, che ha bisogno di tempo per espletarsi, rivelarsi. Il significante della parola, il suo suono, nella variazione modulare dei regionalismi, la lingua aulica, il moderno, i neologismi, il timbro volgare e il suono che produce, la cadenza che emana nella lettura… Sono stati giochi di stagionatura anche personale oltre che stilistica. Perché le parole hanno un senso, una storia ed esportano la vita da raccontare. Alla fine sono giunto ad un compromesso. E nelle pagine si disvela.

La parola è lo strumento dell’evocazione, del significato ultimo che cerca la via del ritorno, accompagnando in un fantomatico “giro di boa” l’esperienza di chi scrive.

La costruzione vuole significare una temporalità tangibile. Il verso poetico rende concreta, tangibile, vivibile l’emozione, lo scorrere del tempo, la visione.

La ricorrenza è un legame con la musica, il canto, la ripetizione melodica. Mi sono appropriato di piccoli stratagemmi che mi hanno permesso di pizzicare le corde delle emozioni vissute. Le vibrazioni impercettibili nell’immediato che producono, poi entrano attraversando membrane sottili della sensibilità e del ricordo.

Questo grazie a costruzioni di rimando interne, come la rima inserita nel verso, l’uso dell’enjambement, nel verso libero delle assonanze (qualvolta anche rime).

Questa rifinitura dimessa della parola e lo studio della sua collocazione per far fiorire il ritmo si sono poi concretizzate in scelte precise.

La scelta della corrispondenza come elemento di collegamento interno, di ridondanza, di specularità. Alcune parole, nel flusso del senso del verso, si chiamano, rimandano l’una all’altra.

La scelta difficile è stata quella della lunghezza del verso, del range della melodia: per la maggior parte non più di un endecasillabo non meno di un settenario. Alessandrini a volte, ma si è trattato di un gioco manieristico. I versi brevi, come sbavature, lo sfumare di una storia che si perde nel ricordo. La scelta del lessico è stata a volte drammatica. Negli anni la parola è stato più volte riconfezionata, cambiata, pensata. Ad un certo punto la situazione si è anche patologizzata. Aulico e moderno? Commistione o purezza. Spiegare, narrare, decifrare o lasciare nel dubbio, nell’ambiguità? Spesso ho scelto la seconda opzione.  

Grande ispirazione mi è venuta dalla mia educazione cattolica, grazie la forza timbrica e della costruzione dei salmi. La salmodia mi è stata fonte di ispirazione musicale da sempre.

Tornando ai tecnicismi ho abusato, perché sedotto, degli artifizi della rima interna, di impronta montaliana, come possibilità per un racconto in libertà che rimanda ad “altro”. L’enjambement si è dimostrato un espediente prezioso per lo slancio prosastico.

Infine, le parole ricorrenti nelle evocazioni, come flusso del pensiero, regolare ma fremente. Fondamentale la conoscenza della musica elettronica, nello specifico le esperienze di Giorgio Moroder, Depeche Mode e Pino Pinaxa Pischetola.

LE SEZIONI OVVERO “VIVISEZIONI”

Anche il conferire il nome a delle sezioni non è stato semplice. Anche questa un’esperienza che mi catapultato in un viaggio a ritroso.

ANNI IMBERBI

La prima poesia nell’estate del mio sedicesimo compleanno, un’esplosione dopo la visione di un vhs (il mio primo): Cyrano con Depardieu. La selezione ha premiato le poesie che sono sopravvissute, cioè quelle che hanno lasciato ancora spazio per un’obiezione, per un non detto. La descrizione dello stupore è il filo conduttore.

ESISTENZIALISMO DI VALLE

La mia terra, in cui sono nato e cresciuto con la noia come bàlia, è un luogo metafisico. Senza gloria, senza valore apparente, è un contenitore immenso ed ubertoso di silenzio “sovrumano”. Un’esperienza quotidiana che ha sempre rilanciato il “non visto”, il “non detto”, il “non digerito”.

FINITURA DOMESTICA

Le cose capite in casa, nella vita domestica. Le grandi rivelazioni colte tra il tinello e le culle delle mie figlie, in auto, tornando dal lavoro, alle toelette per trovare pace.

CONSORTIO CONIUGALIS

In questa sezione racconto il mio sentire dell’amore, che appartiene al cielo e che si inabissa nei giorni grigi. Lo stare insieme e convivere, il bisogno di riemergere per un innato bisogno di spiccare il volo.

Questo amore, l’unico che ho conosciuto con la sua sinfonia e le sue dissonanze, è ciò che racconto. Un’imperfezione che vuole essere “per sempre”.

Le sezioni esprimono una grammatica esistenziale. Il percorso della vita, nella consapevolezza, necessita dell’acquisizione di strumenti di sintesi interiore che mi sono stati innestati dai natali e da creature che mi hanno accompagnato, non sapendolo, non volendolo. Le tappe, le stazioni che mi hanno condotto a conseguire una modesta “licenza elementare” per il poter raccontare la mia vita, non sono molte, cristalline e zeppe di sfaccettature.

Per cominciare la forza dei colori dei tramonti arancioni della mia infanzia, respirati nei dopocena estivi (i contadini alla sera mangiano sempre con grande anticipo rispetto al tramonto), fuori, nel giardino sgualcito di casa mia, sino alla discesa totale del buio. Durante quelle frazioni di ora mi imbevevo di suggestioni.

Poi l’incontro con un maestro della musicalità, del pensiero, della speculazione e della tessitura di divagazioni: Franco Battiato. La sua musica ha consolidato il mio amore per “l’impervio” e “l’inconsueto”.

Per concludere, l’impronta del silenzio monumentale di Rina Grigolato, mia nonna. L’ha condivisa con la mia infanzia, l’ha lasciata dilatare nella mia ricerca in un mondo sconosciuto per nascita. L’impronta dl silenzio, cioè quello che la presenza senza parola lascia nella vita di un bambino. Il regalo di una macchina da scrivere elettrica, una Olivetti ET PERSONAL 55, che conservo gelosamente, nell’estate tra la terza media e le l’inizio delle superiori, fu la legittimazione della mia impellente necessità a scrivere, senza la presunzione di saperlo realmente fare. L’anacronismo di tale regalo, in quegli anni vi era la massima diffusione dei personal computer, fu un balsamo alla mia ricerca, mi tiene ancorato al tocco, alla pelle, al ruvido.

CREDITS

Prima i poeti: Montale, la borghese autosufficienza di Saba, la predestinazione di Michele Mari e la leggerezza di Ladyhawke, la prosa barocca di Gadda, il Manzoni morale, Rebora e il suo paesaggismo visionario e lirico, Zanzotto e lo spiritualismo veneto, una traccia sopravvissuta della trascendenza celtica, Turoldo e il misticismo ritmico.

Anche la musica Pop, pop italiano. Le donne della musica italiana, quelle che cantano la vita non con i testi ma con il timbro, la viscerale ricchezza del suono e del timbro della voce.

In particolare, Giuni Russo, con l’altezza delle emozioni, le sorelle Bertè, la rauca sofferenza dell’amore devastatore. Nada con l’esistenzialismo che sta sepolto, recondito nel fumo di una sigaretta. La melodia della sua voce, che graffia la corteccia cerebrale, la rende ineffabile.

Per concludere Antony And The Johnsons. Il timbro della voce, piena verso l’abisso, uno stimolo alla sintesi delle parole, fluendo ma intermittente, spigolosa e rotolante. Non sono paradossi, infatti le emozioni non hanno logica.

Non posso tralasciare Murubutu. Me lo hanno presentato mie figlie. Un poeta vero.

CONCLUSIONI

La raccolta ha selezionato in un flusso ininterrotto, centinaia di scritti. Alcuni hanno raggiunto la dignità della conservazione, molti sono accatastati in un piccolo baule.

Ho pubblicato solo quelli che hanno attecchito, hanno covato in sé un ricordo.

Il titolo è un semplice gioco mentale. Si tratta della ricerca di oggetti smarriti con la richiesta, invocando le sante entità della vita, di un aiuto che sovrasti l’umano.

Li dicevo con mia nonna quando si perdeva qualcosa a cui tenevo. Non ho mai trovato nulla ma imparavo e ricordare i particolari, a farli miei.