Orazione funebre
A Cula …
É morto Cula. Molti potrebbero, maliziosamente, pensare ad un soprannome che, nel periodo del politicamente corretto, abbatte l’etichetta del bon ton, e allude ad una certa inclinazione sessuale. Non è così! La mia gente, impantanata nelle Valli Grandi, ha un pudore antico e non parlano mai, credo neppure pensino, del sesso e delle sue sfumature. Sono asessuati nel pensiero ma non nelle opere.
Cula è stato un sacerdote dell’infanzia. Non è mai cresciuto, non per indolenza, non per mancanza, non si tratta di un “incompiuto”. Lui ha voluto mantenere un’ingenuità, come se il restare bambino, sotto certi versanti, fosse un privilegio.
Cula è rimasto un fanciullo, anche a sessant’anni. Un fanciullo giocoso, a volte triste, inaffidabile, esagerato solo come chi ha eternamente fame (e lui ne aveva tanta, anche in senso letterale) sa essere. Cula è morto, è morto un fanciullo di 200 kg.
Cula è il soprannome dato per le sue esplosioni di gioia. Questo eterno ragazzino, quando la felicità lo soverchiava, come somma espressione di giubilo, si calava i pantaloni e mostrava il suo luminoso e rotondo “deretano”, una pagnotta al latte solcata da un punto esclamativo.

La sua infanzia si è dilatata e cristallizzata. La sua ostinazione a perdere i treni e le coincidenze, a giocare a calcio con noi ragazzini, a rincorrere le farfalle e le ragazze, lo ha fatto diventare un mito, un adulto per finta, un folletto.
Ha succhiato tutto il dolce che si può trovare in giro, non si è svezzato; il mondo è diventato grande e lo ha lasciato solo.
Mi è rimasta per qualche tempo la convinzione che il tempo fosse un vecchio orologio di campagna, quelli rotondi e di plastica con il logo di qualche mangimificio, che si poteva rompere con una pallonata. Mi ha cullato questa speranza, per anni. Seppur intaccato dallo sporco delle cantine e dallo sterco delle mosche, quell’orologio e le sue lancette hanno continuato a girare.
Di Cula mi rimangono dei ricordi limpidissimi.
Quando giocavamo a calcio nell’aia di casa sua, che era anche la casa del mio amico d’infanzia, suo nipote, lui entrava come un tuono e colpiva con forza mostruosa la palla. Uno Zeus panciuto che aveva un sinistro missilistico.
Non l’ho mai visto lavorare.
Una volta in una scorribanda in bici, lo abbiamo intercettato sulla sui 127 blu rally edition, con i fendinebbia rotondi gialli, mentre stava in un pioppeto a fare l’amore. Il suo bianco culo ondeggiava candido come la luna sospinta dalla marea.
Le sue storie erano magiche. Noi ascoltavamo allampati, certi che il vero Vero uscisse dalla sua bocca, come acqua per noi che eravamo nel deserto. I suoi erano racconti di un’epica minore , fatta di impennate in moto, derapate e accelerate fantasmatiche, di trattori con ruote enormi impantanati sino alla cabina e liberati da forze titaniche, dal volere del nostrano dio pagano, Il Grande Trattorista, che plasma le menti dei giovani che non affogheranno mai nella poesia.
Tutto era grande, tutto era pieno dell’energia dei bambini, tutto divertiva e poi convergeva in Cula, il nostro oracolo. Lui parlava da grande ai bambini e noi ci sentivamo quello che non eravamo, uomini veri.

Il ricordo più bello è quando ci portò a fare il bagno nel fosso. Si spoglia ed entra in questa scolina avvolta da piante dai nomi sconosciuti e poco nobili. Lo seguii anch’io. Lo seguiamo tutti. L’acqua era pulita tanto che la vegetazione sommersa sembrava dipinta e artificiale. Facevamo tuffi in un metro d’acqua e lui si divertiva forse più di noi. Siano rimasti lì ore, senza rimedio, senza angoscie, liberi come dovrebbero essere i bambini.
Poi sono diventato grande. Io non sono resistito al flusso della vita. Mi sono arreso. Cula e la mia infanzia si sono rarefatti nella mia memoria, dissipati dal tempo e dalle cose da fare.
Cula rimane un’icona bella della mia vita passata. Non ci ho mai pensato. Ora che non c’è più, l’ho tirato fuori dalla dimenticanza con cui lo avevo avvolto.
In questo poche righe, con affetto, lo ricordo, con tanta gratitudine. Tanta.