michele casella

Diario minimo

Tag: morte

Avviso bonario

Ti rispondo qui e tu sai che è per te. Mi piace pensare che in questa piazza enorme, piena di baccano e di inutilità preziose, ci sia uno spazio in cui uno sconosciuto ai più possa incontrare chi ama. È il paradosso della Rete, così grande da potercisi nascondere.

Grazie per la tua lettera.

 Giorgio De Chirico, Piazza d’Italia 1961 © jean louis mazieres (CC BY-NC-SA 2.0). Immagine tratta da www.villegiardini.it

 

Mi ha colpito la tua calligrafia. È così elegante, così ben composta, robusta. 

Ha in sé un vissuto di tenacia e ordine. Hai passato le “tue” e la tua calligrafia sembra ribadire che ora sei più forte, più solida. La fragilità ha portato i suoi frutti. Ora sei una donna.

Per questo da oggi ti chiamerò per nome.

I vezzeggiativi, le parole rotonde, i nomignoli teneri che ti ho riservato in questi anni, ora mi sembrano così fuori luogo. Sei una donna, devo abbandonare quel pormi nei tuoi confronti come se tu fossi ancora la mia bambina avvolta dai pigiamoni “soffici”. Ti sei sempre vestita di morbidezza. Ricordi quella volta che il tuo peluche rischiò di far soffocare Fiorella Mannoia mentre cantava I cieli d’Irlanda in Arena? Ti prese in braccio, tu che eri in prima fila e dormivi beatamente mentre la musica invadeva le rocce pensose che ci ospitavano. Fu una scena mitica.

Quando penso a te e alla vita che ci lega, mi vengono tanti aggettivi, di varia natura, di vario colore. Sei la musa degli appellativi, non sei affatto piatta e non ti spegni mai. E va bene così.

Nella tua lettera hai toccato l’argomento di questi mesi: la mia malattia.

Sì, figlia mia, te lo confermo, ho sofferto molto. Ho avuto paura. Ho temuto di perderti, perdervi, di perdere tutto. Ora che la prima onda è arrivata e non mi ha spazzato via, posso fare dei bilanci. Fare dei bilanci non significa arrendersi, non significa aggirarsi sconsolato tra le macerie dopo una tempesta. Non ho mai voluto morire, non ho mai desiderato farlo con placida rassegnazione. Ma quello che ora vivo, il lascito che mi ritrovo tra le mani, può aiutarmi a non essere infelice. I bilanci purtroppo rischiano a volte di valutare in modo negativo l’esistenza. Questo accade quando si è sbrigativi. Ma io non ho questo problema. I bilanci vanno fatti per setacciare quel che resta, gli avanzi, le royalty dei brevetti che ci hanno contraddistinto. Anche un’esperienza come la paura di morire lascia qualcosa di buono. La tempesta lascia sempre sulla spiaggia oggetti inusuali, preziosi, ossi per affilare il becco e per cantare meglio. Dopo una tempesta si dorme più beatamente.

Tito Sarrocchi, Putto dormiente (1874 circa; marmo, lunghezza 80 cm; Siena, Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena). Ph. Credit Danae Project. Immagine tratta da www.finestresullarte.info.

La morte è una cosa seria, va presa con spirito costruttivo e i bilanci ben fatti sono una parte fondamentale di questo approccio.  Non temo il guardarmi dentro e il guardarmi indietro, perché ho avuto una vita piena di doni ( la mia non è la retorica del tramonto scampato, sono sincero, credimi! ). Qui potrei cedere al sentimentalismo, ma mi contengo, come posso. Mi sono arrabattato tra propositi inutili, le fatiche e gli inciampi, certo, ma il mio saldo è sicuramente, ad oggi, positivo. 

Fare i conti significa anche trovare i motivi per essere grati. E la gratitudine aiuta a crescere. La gratitudine è merce preziosa, oggi, figlia mia.

Penso di aver capito, (questa è una delle voci del mio bilancio più dense di valore) che cosa significa crescere, ma a volte mi distraggo e quindi ho bisogno di ricapitolare. La distrazione è letale quando si fanno i bilanci. Crescere per me significa superare le prove, cercare la bellezza, sentire il cambiamento come un’esperienza necessaria, un fluire interiore e non come una sorte subita, imposta ferocemente ( la ferocia oggi invece la trovi ovunque, anche nello sguardo dei bambini ).

Conosci bene la mia forza ( o la mia esibizione di essa), la mia determinazione ( fatta più per orgoglio che per convinzione), la mia capacità di sopportare la fatica ( l’epica completamente veneta che celebra la fatica mi ha contagiato sin da bambino).

Conosci le mie monolitiche certezze che velavano però montagne di dubbi. Sapevo sempre quale fosse la strada; lo sapevo perché qualsiasi scelta avrei fatto, ero certo che mi sarei comunque perso. Diciamocelo: la vita è un continuo perdersi e ritrovarsi.

Torniamo a noi e al tema del “crescere”. Esistono delle stagioni ed ognuna ha i suoi sapori e i suoi profumi. Questa cosa non la puoi capire completamente perché non sei nata dove sono nato io, dove il Nulla è costellato da sentori gustativi e olfattivi. Le stagioni là odorano sfacciatamente, soprattutto quando avviene il passaggio. L’odore del verde grasso e vitale di Aprile, bagnato dalla pioggia e affondato nella terra nera, unta e brulicante di lombrichi ha il sapore acerbo delle susine poco prima della maturazione. Poi il gusto si evolve in un brodo dolce, il sapore delle colate che rigano il mento quando ci abbuffiamo di frutta matura, il verde appena tagliato che sta per seccarsi, l’odore dolciastro di Maggio. Il passaggio tra Aprile e Maggio è molto intenso. È il tuo momento. La tua paura nel diventare “grande” forse nasce proprio da questo, cioè dal vivere il trapasso tra le stagioni più dense di emozioni della nostra vita, dalla giovinezza all’età adulta ad esempio, come un trauma. Non è così, non c’è nulla di più naturale del cambiare. Lo capirai più avanti, superato il valico dell’adultità, vedrai allora che i passaggi saranno meno intensi, ma non meno dolorosi.

Convergence, 1952 by Jackson Pollock, immagine tratta da https://www.jackson-pollock.org/

Diventare grandi non è un passaggio definitivo, ma è il sovrapporsi di veli di colore, di schizzi corposi, singolarmente insignificanti, in un dipinto che solo nella sua incompletezza trova il senso della propria bellezza. È un continuo, non è un passaggio definito o definibile, è come la storia, è liquido, e scorre. 

Le considerazioni si fanno a posteriori e spesso non sono esaustive. Ma il passaggio dalla tela bianca alle prime croste di colore è, sicuramente, drammatico, vitale, esplosivo, meraviglioso. È come fare l’amore per la prima volta con chi si ama, poi ci si sente più grandi, più veri.

Questo è il formarsi dell’identità. Il distacco teso alla definizione del nostro “io sono” è in realtà “il cambiare”. Il distacco non è un’assenza, ma è un cambiamento; io sarò altro e tu pure. 

Noi partecipiamo al cambiamento, siamo il cambiamento e non possiamo fare diversamente.

Ora, forse, può sembrare che stia precipitando nel paternalismo. Alla mia età può essere un male cronico. Ma non si tratta di questo.  Per dirti le stesse cose potrei usare gli alambicchi di chi pensa di saper scrivere, cambiare la prospettiva, usare parole spezzate, le frasi che ti portano altrove, l’evocativo timbro di Craven, la sintassi cristallina dei russi tradotti bene, la magia di Màrquez, la forza di Montale quando si schermisce, la barocca raffinatezza di Bufalino, la capacità di Salinger di sparigliare per rilanciare della terza linea. Potrei tutto questo … ma la verità è semplice, semplicissima ed è mescolata con l’evidenza, per questo ci commuove. Le mie non sono sentenze, le mie sono parole semplici, covate in questo anno di “prova.       

Tu diventi grande, e temi che noi, che io, invecchi e muoia. 

Accadrà, ma non sarà la fine. Questa è la verità, semplice, ed emoziona “tragicamente” entrambi. Ma la vita è una commedia, ricordalo Benedetta. Ha delle repliche, ha dei successi, poi ci sono delle novità… il palinsesto cambia, ma il teatro resta. La vita è una commedia. È come quei film italiani nati per far ridere ma che senza preavviso, forse senza volerlo, fanno piangere, perché lambiscono cose che non avevamo preventivato e nel farlo, lo fanno con tanta poesia (ti consiglio qualcosa di Mattia Torre, uno dei più grandi sceneggiatori e scrittori degli ultimi tempi, un uomo che dal dolore ha tratto un’opera d’arte).

La vita è una commedia. Questo è bello. Gioisco di tutto questo: c’è tanta bellezza in noi, so che finirà, ma ora ne voglio sorbire ogni singola goccia! Siamo tutti teatranti in pellegrinaggio, siamo tutti migranti, siamo tutti in partenza. Abbiamo sempre la valigia in mano.

Bruno Catalano,
scultura della serie dei Viaggiatori,
particolare, Amalfi 2023. immagine tratta da Artedossier, Dicembre 2025, Giunti editore.

La malattia ha portato con sé la presenza discreta della morte, il suo esserci, seduta in salotto, silenziosa e terribile forse più per fama che per quel che è realmente ( me la immagino così, una signora borghese, educata e ben vestita, con tailleur color pastello, verde palude, che parla solo se interrogata, sa stare al suo posto e beve il caffè con impareggiabile e desueta eleganza). Mi ha  accompagnato cordialmente in questi lunghi mesi. Non c’è stato un minuto senza che la sua cordiale presenza, ma pur sempre grave ( cioè avvolta da un alone di serietà funesta), si manifestasse. All’inizio è stato terribile, poi ho capito che la visitazione della Fine e della sua legale rappresentante ( moriamo per la legge del corpo ma non per quella dell’Universo), è stata un dono per redimermi dalla sciocca idea che possediamo il tempo; noi siamo posseduti, creati, immersi. Passiamo una vita nel crederci liberi, ma non lo siamo, per fortuna.

Forse di tempo ne ho sperperato un po’. Ma ne è valsa la pena.

Ora basta però, ho capito, e convintamente ribadisco che è troppo prezioso. E come il cuculo depone le uova altrove, fuori di casa e lontano dalle proprie certezze, così io mi gusto il tempo come se fosse esclusivamente mio. Mi inganno lo so, non è mio, ma questa è la forza della letteratura: ingannare per dire la verità, per sperare nella Verità.

Ma per ora non morirò, forse quella della Morte è stata una visita di cortesia, un avviso bonario teso a raddrizzarmi. Spero nel condono tombale (anche se suono male questa frase …)

Ti ho parlato del cambiamento, del dolore, della morte, del tempo. E allora? Un’ultima cosa: il grande nodo che lega tutti questi temi è la bellezza, anzi, la “Bellezza” (così diamo il giusto peso alle parole).

Mi dona tanta speranza quello che mi hai confidato, che ti sei sentita sostenuta nella ricerca della bellezza e che forse, ora, ti senti bella (lo spero tanto).

Il percorso che ci permette di abbracciare il bello ha un tempo limitato. Farlo nostro, abitarlo, toccarne le trame con i nostri polpastrelli, dargli delle sembianze, ritrarlo con le nostre esperienze: tutto questo significa rendere il nostro tempo unico, Bello. Spero tu riesca a farlo, tu riesca a valorizzare il tempo dato al tuo percorso. Spero che nel momento in cui tu ti perderai ( perché accadrà), qualcuno ti faccia un fischio e ti riconduca alla ricerca di lei, la bellezza. La ricerca, figlia, la ricerca ci fa galleggiare nella spinta ascensionale che sorvola tutta la precarietà su cui si fonda questo mistero che è la nostra vita.

Grazie per il tuo invito a scrivere. Lo farò, perché ne ho bisogno e non posso più rimandare. Non posso più farne a meno. Tua madre ha tirato fuori tutte le poesie scritte in questo mezzo secolo di vita, come conati che hanno trafitto fogli improvvisati, uno sgorgare di parole che a volte, rileggendoli, mi risultano quasi indecifrabili.

Voglio lasciare una traccia, non nel mondo , ma nella memoria di chi ho amato. Un’eredità che il tempo, le discordie, l’avidità non possono tarlare.

A volto sento dentro solo il puro desiderio, molto meno concettuale e tragico se vuoi, di scrivere perché ne ho bisogno, come se fosse fisiologico, innato, viscerale.

Farlo mi fa star bene. 

L’orma che lascio nei ricordi di che mi ha amato, può essere uno spettro benevolo della mia tentata leggerezza.

Nella lettera citavi gli occhi dei miei genitori, il mio sguardo indecifrabile nel guardarli, nel fissarli nel loro perdersi. Sono smarriti ora come lo ero io da bambino. Ci siamo passati il testimone. Mi fanno tanta tenerezza. Sono attori che hanno perso la memoria e si assopiscono, magari sognano la loro gioventù, il loro esserci ancora. Ho già perdonato tutte le inadeguatezze, le occasioni mancate, gli errori voluti, fatti perché non potevano fare altro. La vita spesso ci costringe a vestire ruoli che non capiamo minimamente. Lo facciamo perché non ce ne accorgiamo o perché convinti da altro o da altri. 

Angelo Morbelli, Sogno e realtà (Trittico della vita) (1905; olio su tela, tre pannelli, 112 x 80 cm, 112 x 79 cm, 112 x 80 cm; Milano, collezione Fondazione Cariplo) – immagine tratta da www.finestresullarte.info

Torniamo alla commedia e ai suoi attori. La “vita commedia” la immagino come un teatro di paese, un po’ fatiscente fuori, ma ancora pulito dentro, pieno di buone intenzioni e intriso di approssimazione e banalità. La nostra “parte”, il nostro ruolo è shakespeariano, cioè deve imparare a convivere con vette di poesia straordinarie e il rombo di un rutto amplificato dalle logge del Globe Theatre: ciò che sta in mezzo è la nostra quotidianità. Gli effetti della nostra interpretazione ( conscia o meno, pagata o amatoriale, lodevole o tragicamente comica, volgare o compiacente) li vediamo nel momento del sipario, quando ci sono gli applausi finali. Gli applausi ci sono sempre ( quasi sempre ai funerali), anzi, il rumoreggiare della “Storia” è sempre in sala per donarci i nostri 5 minuti “pop”, i nostri 5 minuti di gloria. Solo le recensioni sulla nostra interpretazione non ci riguardano.

Il nostro ruolo, i tempi comici, le attese, i silenzi tragici, gli intermezzi, lo spazio imbarazzante tra un atto e l’altro, le tresche tra il pubblico, la solitudine delle poltroncine affossate nel buio, la malinconia della maschere, il trasudare corporale dei cessi di un teatro di paese … tutto è prezioso, tutto è vita e la nostra commedia mastica il tempo.

Il tempo passa. La vita passa, e con essa tutto ciò che vi galleggia sopra. 

Per questo l’Amore, la bellezza, tutto va raccontato. 

Che pistolotto ti sto scrivendo… a volte perdo il contegno. Perdonami.

Grazie per avermi spronato ora e per averlo fatto in passato.  Per una volta il tuo papà viene sostenuto nel fare la cosa giusta dalla sua “bambina” (concedimelo per l’ultima volta).

La tempesta è passata, la morte è partita per le sue commissioni, salutandomi a malapena. 

Io ci sarò ancora. 

Il compagno ingombrante che ha preso dimora nel mio ventre è stato cacciato, estirpato. Speriamo che non sia nascosto per bene in qualche anfratto del mio addome. Ha lasciato un vuoto pieno di ragioni e di pensieri. Un marchio profondo, sì, un talismano di cicatrici mi ha lasciato. Tutto è vita, anche l’assaggio della morte.

Bene. Ora basta! Concludere è difficile, ma congedarsi con stile è ciò che fa la differenza tra un imbonitore e un narratore. Il primo chiude perché conviene, il secondo perché lo deve alla “storia”.

Ti voglio bene, per tutte le volte che non te l’ho detto e per tutte le volte che non avrò il coraggio di farlo con convinzione, per distrazione, per noia, per assenza.

Questo è il mio regalo. Aspetto il tuo ritorno per un abbraccio.

Morirò a maggio

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Capita che per strani motivi si facciano viaggi inutili. Parti con un programma, poi per tutta una serie di circostanze, si viene condotti altrove. Così è stato per noi. A Torino, per una mostra su Modigliani, attesa, quasi sognata, deludente. Come spesso accade, le delusioni portano benefici insperati. Non sempre, ma a volte accade.

Vagabondando per la città torrida ed esoterica, aspettando un treno, con Debora iniziamo a parlare. Cose inutili, discorsi abbozzati e subito sciolti dal caldo.

Ad un semaforo, spossati. Aspettiamo il verde. Dietro ad un anziano, con il bastone, un uomo vestito di saggezza. Aspetto il momento per partire. Il vecchio parte ed io lo seguo fiducioso, senza pensarci. Uno scooter a velocità pazzesca mi sfiora, ho sentito il sibilo della morte sfiorare le mie chiappe. Sono frastornato.  Ho seguito il nonno, una persona saggia, prudente! Forse un po’ rincoglionita. Il caldo africano come attenuante,
Sta di fatto che è tornato a galla il pensiero della morte. Un pensiero che ogni tanto mi visita, senza creare grande fastidio.

Una compagnia che genera vita abbondante, riflessioni. Da tempo nel mio taccuino tengo delle bozze, una poesia sulla morte. Ho immaginato la mia. Una bella esperienza, di grande fecondità.
Tornando col treno l’ho rifinita. L’ho resa viva. Grazie al caldo, ad un vecchio apprendista suicida, e al tremore di un incontro ravvicinato con la carena di una moto, sparata a tutta velocità sull’asfalto tremulo, infernale.

Morirò a maggio
Sotto l’acacia ombrosa
Piantata da mio padre.
Lo farò col poco garbo imparato,
Apparendo pronto, non rassegnato.
Staccherò il biglietto per il viaggio,
Senza il clamore, senza il cuore impavido
Dell’epifania e dei suoi falò,
Che ho sempre sperato di custodire nel petto,
Ma che ora, tutto sommato, non serve più.
“Casella, un po’ di contegno!”
Sbotterà la grassa rosa,
Quella bianca latte,
Da mia madre coccolata
Con disordine e cura.
Il titolo per il viaggio, per il “diretto”,
Lo consegnerò col dovuto rispetto,
Senza fronzoli, senza inutile omaggio.
Morirò prima del caldo, prima delle sieste assolate
Prima che gli insetti molesti invadano il meriggio.
Sarà mia, solo mia la gioia galeotta
Di chi ha respirato la primavera,
Con la sazietà dolciastra,
Del vino di cantina, del formaggio e del pane.
Appoggerò il pianto serbato, oramai liquoroso,
A sgabello dei miei piedi dalle unghie spesse.
Sfilerò il fazzoletto,
Quello a righe della festa
Custode dei miei tesori.
Li terrò nelle mie mani da vecchio studente,
Coccolandoli con le ciglia,
Prima che la luce si spenga,
Il tramonto mi accolga
Come una giacca stretta,
E le tenebre tirino il grosso chiavistello
Della mia nuova casa.
Solo Venere ancora a farmi da lampada.
Avrò gli occhi forse un poco lucidi,
Poco prima di calare il sipario.
Sulla scena del mio ultimo applauso,
Rivedrò a batter le mani in piedi,
Osannanti,
Le Occasioni, i fatti salienti,
La gioia ordinaria, l’anonimato dei giorni,
Il logorio della delusioni
l’inconsapevolezza della fine,
Svanita d’improvviso come le foglie dal salice.
La Gratitudine mi lascerà lì ancora un paio di minuti,
Poi le ultime cose,
Pesare ciò che resta della voglia,
mischiarla con un po’ di tabacco e meraviglia.
La gloria rimasta
Nei capelli stanchi
Mi scivolerà giù,
Accarezzando le orecchie molli,
Non più turgide, che impazzivano
Tra le dita eccitate delle mie bambine.
Prima del tracollo vorrei sentire
La voce di mia moglie, che mi chiama per la cena,
Mi sgrida per le tante fragilità che ci hanno reso forti.
Vorrei sentire ancora la sua voce
Prima di passare il ponte.
Arrivato, accendere il sigaro buono,
capire chi aveva ragione,
Sgridare bonariamente chi ha fatto troppo silenzio,
Sedermi ancora e cominciare a ridere.

Disnare malinconico

Non era ancora mezzogiorno e sono stato preso, oggi, da un angoscia strana. Inconsueta. Ho imparato a convivere teatralmente con questi stati d’animo indecifrabili, dissimulandoli sia a chi mi sta attorno che a me stesso. Visto l’orario avrei potuto pensare ad un attacco repentino di fame chimica, la chimica dello stress ovviamente… Ma la fame è un’emozione quasi dimenticata. Penso, in questi momenti, frequentemente a Cesare Pavese, ai suoi falò e alle sue lune, al suo soffrire da mestierante dell’esistere, da maniscalco raffinato del vivere. Mi dedico una sua poesia. Alla speranza e all’arte del sopravvivere ai gorgoglii, a noi stessi.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Pablo Picasso, titolo reinterpretato da me medesimo…“Riemergere di un viso morto”

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