Ti rispondo qui e tu sai che è per te. Mi piace pensare che in questa piazza enorme, piena di baccano e di inutilità preziose, ci sia uno spazio in cui uno sconosciuto ai più possa incontrare chi ama. È il paradosso della Rete, così grande da potercisi nascondere.
Mi ha colpito la tua calligrafia. È così elegante, così ben composta, robusta.
Ha in sé un vissuto di tenacia e ordine. Hai passato le “tue” e la tua calligrafia sembra ribadire che ora sei più forte, più solida. La fragilità ha portato i suoi frutti. Ora sei una donna.
Per questo da oggi ti chiamerò per nome.
I vezzeggiativi, le parole rotonde, i nomignoli teneri che ti ho riservato in questi anni, ora mi sembrano così fuori luogo. Sei una donna, devo abbandonare quel pormi nei tuoi confronti come se tu fossi ancora la mia bambina avvolta dai pigiamoni “soffici”. Ti sei sempre vestita di morbidezza. Ricordi quella volta che il tuo peluche rischiò di far soffocare Fiorella Mannoia mentre cantava I cieli d’Irlanda in Arena? Ti prese in braccio, tu che eri in prima fila e dormivi beatamente mentre la musica invadeva le rocce pensose che ci ospitavano. Fu una scena mitica.
Quando penso a te e alla vita che ci lega, mi vengono tanti aggettivi, di varia natura, di vario colore. Sei la musa degli appellativi, non sei affatto piatta e non ti spegni mai. E va bene così.
Nella tua lettera hai toccato l’argomento di questi mesi: la mia malattia.
Sì, figlia mia, te lo confermo, ho sofferto molto. Ho avuto paura. Ho temuto di perderti, perdervi, di perdere tutto. Ora che la prima onda è arrivata e non mi ha spazzato via, posso fare dei bilanci. Fare dei bilanci non significa arrendersi, non significa aggirarsi sconsolato tra le macerie dopo una tempesta. Non ho mai voluto morire, non ho mai desiderato farlo con placida rassegnazione. Ma quello che ora vivo, il lascito che mi ritrovo tra le mani, può aiutarmi a non essere infelice. I bilanci purtroppo rischiano a volte di valutare in modo negativo l’esistenza. Questo accade quando si è sbrigativi. Ma io non ho questo problema. I bilanci vanno fatti per setacciare quel che resta, gli avanzi, le royalty dei brevetti che ci hanno contraddistinto. Anche un’esperienza come la paura di morire lascia qualcosa di buono. La tempesta lascia sempre sulla spiaggia oggetti inusuali, preziosi, ossi per affilare il becco e per cantare meglio. Dopo una tempesta si dorme più beatamente.
Tito Sarrocchi, Putto dormiente (1874 circa; marmo, lunghezza 80 cm; Siena, Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena). Ph. Credit Danae Project. Immagine tratta da www.finestresullarte.info.
La morte è una cosa seria, va presa con spirito costruttivo e i bilanci ben fatti sono una parte fondamentale di questo approccio. Non temo il guardarmi dentro e il guardarmi indietro, perché ho avuto una vita piena di doni ( la mia non è la retorica del tramonto scampato, sono sincero, credimi! ). Qui potrei cedere al sentimentalismo, ma mi contengo, come posso. Mi sono arrabattato tra propositi inutili, le fatiche e gli inciampi, certo, ma il mio saldo è sicuramente, ad oggi, positivo.
Fare i conti significa anche trovare i motivi per essere grati. E la gratitudine aiuta a crescere. La gratitudine è merce preziosa, oggi, figlia mia.
Penso di aver capito, (questa è una delle voci del mio bilancio più dense di valore) che cosa significa crescere, ma a volte mi distraggo e quindi ho bisogno di ricapitolare. La distrazione è letale quando si fanno i bilanci. Crescere per me significa superare le prove, cercare la bellezza, sentire il cambiamento come un’esperienza necessaria, un fluire interiore e non come una sorte subita, imposta ferocemente ( la ferocia oggi invece la trovi ovunque, anche nello sguardo dei bambini ).
Conosci bene la mia forza ( o la mia esibizione di essa), la mia determinazione ( fatta più per orgoglio che per convinzione), la mia capacità di sopportare la fatica ( l’epica completamente veneta che celebra la fatica mi ha contagiato sin da bambino).
Conosci le mie monolitiche certezze che velavano però montagne di dubbi. Sapevo sempre quale fosse la strada; lo sapevo perché qualsiasi scelta avrei fatto, ero certo che mi sarei comunque perso. Diciamocelo: la vita è un continuo perdersi e ritrovarsi.
Torniamo a noi e al tema del “crescere”. Esistono delle stagioni ed ognuna ha i suoi sapori e i suoi profumi. Questa cosa non la puoi capire completamente perché non sei nata dove sono nato io, dove il Nulla è costellato da sentori gustativi e olfattivi. Le stagioni là odorano sfacciatamente, soprattutto quando avviene il passaggio. L’odore del verde grasso e vitale di Aprile, bagnato dalla pioggia e affondato nella terra nera, unta e brulicante di lombrichi ha il sapore acerbo delle susine poco prima della maturazione. Poi il gusto si evolve in un brodo dolce, il sapore delle colate che rigano il mento quando ci abbuffiamo di frutta matura, il verde appena tagliato che sta per seccarsi, l’odore dolciastro di Maggio. Il passaggio tra Aprile e Maggio è molto intenso. È il tuo momento. La tua paura nel diventare “grande” forse nasce proprio da questo, cioè dal vivere il trapasso tra le stagioni più dense di emozioni della nostra vita, dalla giovinezza all’età adulta ad esempio, come un trauma. Non è così, non c’è nulla di più naturale del cambiare. Lo capirai più avanti, superato il valico dell’adultità, vedrai allora che i passaggi saranno meno intensi, ma non meno dolorosi.
Diventare grandi non è un passaggio definitivo, ma è il sovrapporsi di veli di colore, di schizzi corposi, singolarmente insignificanti, in un dipinto che solo nella sua incompletezza trova il senso della propria bellezza. È un continuo, non è un passaggio definito o definibile, è come la storia, è liquido, e scorre.
Le considerazioni si fanno a posteriori e spesso non sono esaustive. Ma il passaggio dalla tela bianca alle prime croste di colore è, sicuramente, drammatico, vitale, esplosivo, meraviglioso. È come fare l’amore per la prima volta con chi si ama, poi ci si sente più grandi, più veri.
Questo è il formarsi dell’identità. Il distacco teso alla definizione del nostro “io sono” è in realtà “il cambiare”. Il distacco non è un’assenza, ma è un cambiamento; io sarò altro e tu pure.
Noi partecipiamo al cambiamento, siamo il cambiamento e non possiamo fare diversamente.
Ora, forse, può sembrare che stia precipitando nel paternalismo. Alla mia età può essere un male cronico. Ma non si tratta di questo. Per dirti le stesse cose potrei usare gli alambicchi di chi pensa di saper scrivere, cambiare la prospettiva, usare parole spezzate, le frasi che ti portano altrove, l’evocativo timbro di Craven, la sintassi cristallina dei russi tradotti bene, la magia di Màrquez, la forza di Montale quando si schermisce, la barocca raffinatezza di Bufalino, la capacità di Salinger di sparigliare per rilanciare della terza linea. Potrei tutto questo … ma la verità è semplice, semplicissima ed è mescolata con l’evidenza, per questo ci commuove. Le mie non sono sentenze, le mie sono parole semplici, covate in questo anno di “prova.
Tu diventi grande, e temi che noi, che io, invecchi e muoia.
Accadrà, ma non sarà la fine. Questa è la verità, semplice, ed emoziona “tragicamente” entrambi. Ma la vita è una commedia, ricordalo Benedetta. Ha delle repliche, ha dei successi, poi ci sono delle novità… il palinsesto cambia, ma il teatro resta. La vita è una commedia. È come quei film italiani nati per far ridere ma che senza preavviso, forse senza volerlo, fanno piangere, perché lambiscono cose che non avevamo preventivato e nel farlo, lo fanno con tanta poesia (ti consiglio qualcosa di Mattia Torre, uno dei più grandi sceneggiatori e scrittori degli ultimi tempi, un uomo che dal dolore ha tratto un’opera d’arte).
La vita è una commedia. Questo è bello. Gioisco di tutto questo: c’è tanta bellezza in noi, so che finirà, ma ora ne voglio sorbire ogni singola goccia! Siamo tutti teatranti in pellegrinaggio, siamo tutti migranti, siamo tutti in partenza. Abbiamo sempre la valigia in mano.
Bruno Catalano, scultura della serie dei Viaggiatori, particolare, Amalfi 2023. immagine tratta da Artedossier, Dicembre 2025, Giunti editore.
La malattia ha portato con sé la presenza discreta della morte, il suo esserci, seduta in salotto, silenziosa e terribile forse più per fama che per quel che è realmente ( me la immagino così, una signora borghese, educata e ben vestita, con tailleur color pastello, verde palude, che parla solo se interrogata, sa stare al suo posto e beve il caffè con impareggiabile e desueta eleganza). Mi ha accompagnato cordialmente in questi lunghi mesi. Non c’è stato un minuto senza che la sua cordiale presenza, ma pur sempre grave ( cioè avvolta da un alone di serietà funesta), si manifestasse. All’inizio è stato terribile, poi ho capito che la visitazione della Fine e della sua legale rappresentante ( moriamo per la legge del corpo ma non per quella dell’Universo), è stata un dono per redimermi dalla sciocca idea che possediamo il tempo; noi siamo posseduti, creati, immersi. Passiamo una vita nel crederci liberi, ma non lo siamo, per fortuna.
Forse di tempo ne ho sperperato un po’. Ma ne è valsa la pena.
Ora basta però, ho capito, e convintamente ribadisco che è troppo prezioso. E come il cuculo depone le uova altrove, fuori di casa e lontano dalle proprie certezze, così io mi gusto il tempo come se fosse esclusivamente mio. Mi inganno lo so, non è mio, ma questa è la forza della letteratura: ingannare per dire la verità, per sperare nella Verità.
Ma per ora non morirò, forse quella della Morte è stata una visita di cortesia, un avviso bonario teso a raddrizzarmi. Spero nel condono tombale (anche se suono male questa frase …)
Ti ho parlato del cambiamento, del dolore, della morte, del tempo. E allora? Un’ultima cosa: il grande nodo che lega tutti questi temi è la bellezza, anzi, la “Bellezza” (così diamo il giusto peso alle parole).
Mi dona tanta speranza quello che mi hai confidato, che ti sei sentita sostenuta nella ricerca della bellezza e che forse, ora, ti senti bella (lo spero tanto).
Il percorso che ci permette di abbracciare il bello ha un tempo limitato. Farlo nostro, abitarlo, toccarne le trame con i nostri polpastrelli, dargli delle sembianze, ritrarlo con le nostre esperienze: tutto questo significa rendere il nostro tempo unico, Bello. Spero tu riesca a farlo, tu riesca a valorizzare il tempo dato al tuo percorso. Spero che nel momento in cui tu ti perderai ( perché accadrà), qualcuno ti faccia un fischio e ti riconduca alla ricerca di lei, la bellezza. La ricerca, figlia, la ricerca ci fa galleggiare nella spinta ascensionale che sorvola tutta la precarietà su cui si fonda questo mistero che è la nostra vita.
Grazie per il tuo invito a scrivere. Lo farò, perché ne ho bisogno e non posso più rimandare. Non posso più farne a meno. Tua madre ha tirato fuori tutte le poesie scritte in questo mezzo secolo di vita, come conati che hanno trafitto fogli improvvisati, uno sgorgare di parole che a volte, rileggendoli, mi risultano quasi indecifrabili.
Voglio lasciare una traccia, non nel mondo , ma nella memoria di chi ho amato. Un’eredità che il tempo, le discordie, l’avidità non possono tarlare.
A volto sento dentro solo il puro desiderio, molto meno concettuale e tragico se vuoi, di scrivere perché ne ho bisogno, come se fosse fisiologico, innato, viscerale.
Farlo mi fa star bene.
L’orma che lascio nei ricordi di che mi ha amato, può essere uno spettro benevolo della mia tentata leggerezza.
Nella lettera citavi gli occhi dei miei genitori, il mio sguardo indecifrabile nel guardarli, nel fissarli nel loro perdersi. Sono smarriti ora come lo ero io da bambino. Ci siamo passati il testimone. Mi fanno tanta tenerezza. Sono attori che hanno perso la memoria e si assopiscono, magari sognano la loro gioventù, il loro esserci ancora. Ho già perdonato tutte le inadeguatezze, le occasioni mancate, gli errori voluti, fatti perché non potevano fare altro. La vita spesso ci costringe a vestire ruoli che non capiamo minimamente. Lo facciamo perché non ce ne accorgiamo o perché convinti da altro o da altri.
Angelo Morbelli, Sogno e realtà (Trittico della vita) (1905; olio su tela, tre pannelli, 112 x 80 cm, 112 x 79 cm, 112 x 80 cm; Milano, collezione Fondazione Cariplo) – immagine tratta da www.finestresullarte.info
Torniamo alla commedia e ai suoi attori. La “vita commedia” la immagino come un teatro di paese, un po’ fatiscente fuori, ma ancora pulito dentro, pieno di buone intenzioni e intriso di approssimazione e banalità. La nostra “parte”, il nostro ruolo è shakespeariano, cioè deve imparare a convivere con vette di poesia straordinarie e il rombo di un rutto amplificato dalle logge del Globe Theatre: ciò che sta in mezzo è la nostra quotidianità. Gli effetti della nostra interpretazione ( conscia o meno, pagata o amatoriale, lodevole o tragicamente comica, volgare o compiacente) li vediamo nel momento del sipario, quando ci sono gli applausi finali. Gli applausi ci sono sempre ( quasi sempre ai funerali), anzi, il rumoreggiare della “Storia” è sempre in sala per donarci i nostri 5 minuti “pop”, i nostri 5 minuti di gloria. Solo le recensioni sulla nostra interpretazione non ci riguardano.
Il nostro ruolo, i tempi comici, le attese, i silenzi tragici, gli intermezzi, lo spazio imbarazzante tra un atto e l’altro, le tresche tra il pubblico, la solitudine delle poltroncine affossate nel buio, la malinconia della maschere, il trasudare corporale dei cessi di un teatro di paese … tutto è prezioso, tutto è vita e la nostra commedia mastica il tempo.
Il tempo passa. La vita passa, e con essa tutto ciò che vi galleggia sopra.
Per questo l’Amore, la bellezza, tutto va raccontato.
Che pistolotto ti sto scrivendo… a volte perdo il contegno. Perdonami.
Grazie per avermi spronato ora e per averlo fatto in passato. Per una volta il tuo papà viene sostenuto nel fare la cosa giusta dalla sua “bambina” (concedimelo per l’ultima volta).
La tempesta è passata, la morte è partita per le sue commissioni, salutandomi a malapena.
Io ci sarò ancora.
Il compagno ingombrante che ha preso dimora nel mio ventre è stato cacciato, estirpato. Speriamo che non sia nascosto per bene in qualche anfratto del mio addome. Ha lasciato un vuoto pieno di ragioni e di pensieri. Un marchio profondo, sì, un talismano di cicatrici mi ha lasciato. Tutto è vita, anche l’assaggio della morte.
Bene. Ora basta! Concludere è difficile, ma congedarsi con stile è ciò che fa la differenza tra un imbonitore e un narratore. Il primo chiude perché conviene, il secondo perché lo deve alla “storia”.
Ti voglio bene, per tutte le volte che non te l’ho detto e per tutte le volte che non avrò il coraggio di farlo con convinzione, per distrazione, per noia, per assenza.
Questo è il mio regalo. Aspetto il tuo ritorno per un abbraccio.
Mi ha molto colpito la vicenda di questo uomo innamorato che al funerale della moglie, uccisa da un suo studente, nel pieno di una tragedia incomprensibile ed inaccettabile, inizia a danzare con lo spirito della sua donna, in una poetica solitudine.
Quando pensi di saper tutto dell’Amore o di conoscerne le costellazioni, per un viaggio sereno, senza sorprese o impicci, ecco la Vita che sprizza del blu, del viola e turchese, e si nega alle parole e affossa le pretese.
Cerchi nelle cose che contano, i dettami del Vero, ma nei capricci e nel “balzano”, negli intrugli e nei pasticci dell’inatteso, si occulta non il Vero, ma l’umano.
Davanti all’addio ecco che ballo, da solo, col tuo fantasma dai capelli rame venati d’oro, con le tue labbra socchiuse, la tua vita Altrove, la tua Vita tinta di cobalto e di luna spezzata, muta e sorridente che lascia un manto di parole.
La tua assenza mi muove, il tuo sorriso commuove e trafigge il me che resta, il legno lucido e fermo, conserva ciò che di te non è più; quello che sei sempre stata mi prende la mano, iniziamo il ballo, iniziamo il passo, io da solo in questo mondo, in due dove da sempre ci amiamo.
Sbattono di gioia e stupore, i nostri amici, e l’insensato sbigottimento del dolore, di un morte che non ragione, che non ha sentimento, né dignità, né magione, e si trasforma, li abbandona: anche loro sono neve che galleggia che si posa leggera, accarezzata non so più da cosa.
Anche loro, Amore mio dolcissimo, fanno lo stesso, danzano con i loro corpi stretti, con parole soffuse, con lacrime copiosi nei gretti degli occhi, con imprevista gratitudine per l’amore rimasto, che ci lega nel nostro ultimo, leggero, giro di danza, qui dove c’è solo desolazione e la tua foto luminosa sotto un cielo biancastro.
Caro Dio, ti aspetto per un caffè.
Due parole, per sentirci, da vecchi amici.
Sapere come stai e cosa ti fa star bene oggi.
Quattro parole per raccontarci la vita,
Affacciati alle nostre finestre,
La tua più luminosa,
La mia invece, coperta in parte
Da un muro pieno di edera verde.
Un caffè ed una sigaretta, insieme.
Con la Realtà che ci fa da sfondo,
Filtrata da una vetrata che dà sulla strada.
Le mie aspirazioni e le tue delusioni.
Le tue fatiche e i mie fallimenti.
La tua gioia e il mio stupore.
La tua fedeltà, la mia grandissima pochezza.
Un caffè soltanto,
Da vecchi compagni e confidenti,
Che si sentono poco, ma si pensano,
Di tanto in tanto.
Per passare oltre al “non fatto”, al “non detto”.
Per guardarci alla fine, dopo che ho pagato,
con una pacca sulla spalla e dirci:
“Alla prossima, stammi bene e
fatti sentire quando passi”.
Non dispiace l’idea di scrivere su un vecchio quadernino il post che poi pubblicherò sul blog. Sembra quasi un nonsense. Di certo è un’involuzione tecnologica. Anzi, è un dono della provvidenza, della sorte o del genio della lampada, questa possibilità di rivivere, inaspettatamente, sensazioni fisiche sepolte da anni in un cassetto dimenticato della memoria e della pelle. Per tutta una serie di circostanze, in questi giorni, mi sono più volte ritrovato testarmi con la scrittura a penna, su carta, solcando le righe di un vecchio residuo delle scuole elementari dello scorso secolo ( temo che l’oggetto fosse addirittura mio ). È stata una bella sensazione.
La carta porosa che accarezza le dita mentre trascino la biro, la penna che affatica le dita, quasi inesperte. La paginetta giallognola che scivola con tutto il quaderno un po’ ovunque.
Anni ed anni che non mi cimentavo con questa “gentil tenzone” creativa. A contorno di tutto, la bellezza dei segni infissi dalle scritture precedenti, portate vie con le pagine strappate. Un dedalo di ragnatele da decifrare, da fissare come segni arcani che ci richiamano ad altre parole, ad altri lidi, ad altre vite. Un artificio della Memoria, del tempo, dei suoi ricorsi e delle occasioni sparpagliate.
Il tempo distillato della Memoria
mi attraversa dentro,
scompiglia e scopre come nella stanza il vento.
Certo non sono, ma conservo
tra il disordine organizzato
le iniziazioni, la fragranza dei gesti
il gusto per la lontananza
e le paure di una sentinella
nell’attesa dei Tartari.
I vuoti sembrano gli stessi,
le Ore a caccia d’amore
li hanno tutti ingialliti.
I volti sono avvolti dalla nebbia,
di loro resta forse il refrigerio
e ciò che di loro ho dimenticato
per inciso o per iscritto,
sulle cortecce, nelle tasche
e sulle rive dell’Ade.
La processione di questi,
con l’ordine di un’evacuazione,
interminabile batte le vie
del Ritorno e degli Addii,
tra dogmi, allusioni e costruzioni mancate.
Osservo tutto nel silenzio del buio,
da dietro, in disparte,
come al funerale di uno sconosciuto.
Oggi che il grigio fa da sfondo al giorno
Un sentimento bigio, senza ritorno, mi scioglie.
Sono alle soglie, vestito di fango,
Pronto alla resa e adorno di un semplice manto,
senza munizioni, felice e vinto.
Dell’Orlando ligio ho deposto il corno e il canto,
l’incendio amoroso, la presa e la voce.
Attendo sereno ciò che non nuoce
In compagnia di novelle intuizioni,
Pregne di malinconia novembrina,
Che profuma di stelle, di farina bruna
Dolce e densa, rara oramai come la brina.
Sono accerchiato dal vento e dal cielo,
Dalle loro promesse di bombe ed acqua.
Sui prati si stende il velo del sacrificio,
Della Grande Guerra,
dei giovani in prima linea
Caduti come foglie,
Strappati dalla furia come tronchi.
Il Fiume cattivo e torbido
Porta via i resti di una stagione, come pattume,
Sordido, inutile ed ancora vivo
E della notte si riempiono i mie bronchi.
L’autunno sembra deciso a farsi valere.
Ora la calda stagione non ha più alibi.
Fuggono con abili manovre gli uccelli incerti
Tenendo concerti sui tralicci addobbati a voliere.
I tramonti affondano nei cieli tinteggiati
Di striature pastello ed oro.
Sono ferocemente sereno,
Mentre osservo il giorno spegnersi,
Volgersi alla notte con voluttà implacabile.
Sono felicemente dimesso
E la mia prostrazione adorante
Si stempera tra le grida dei fagiani,
brilla di infinita noia sognante
E si compiace dei bimbi e dei loro strilli.
Non penso a nulla.
E delle ombre del diurno
Rimane un’impronta stagnante.
Lasciano il segno solo i buoni propositi,
Il viaggiare assorto del treno veloce verso sud,
La ripugnante sostanza della Burla
E dei suoi proseliti.
Della caparra di santità,
E di ciò che mi tocca dell’eredità
Solo il profumo dell’erba esausta
E il volare sgraziato delle cimici.
Dedicata alla luna di queste sere, ai miei ricordi, alla mia maestra che con ostinazione cercò di farci amare D’Annunzio.
O falce di luna calante
Dalle curve molli ed andate
Che in gioventù
fosti amante del Vate.
Ora ti affacci,
un po’ matrona
Da un cielo incerto e turchese,
Un po’ volgare
A contemplar la terra,
Il suo scader piccolo borghese,
La bruttezza, lo scialare smisurato,
Il ripetersi del suo lavoro
E della sua inutilità.
Mi ammicchi, ora,
Vestita di rosa,
Pastello e fumo,
E i nostri occhi,
tra l’antenna e il cavalcavia,
Si abbassano
di pudore e di vergogna.
Sono altrove,
col ricordo.
E non capisco
Da dove tanta attenzione,
Per te, per il tuo profilo
Per i nostri segreti.
Negli anni degli slanci
Foruncolosi e pulsanti,
Pensavo parlassi proprio a me.
Invece, da sempre,
Una silenziosa discrezione,
L’indifferenza per lo sputo.
Ora non importa:
La tua voce, cantata dai poeti,
da chi lo fa per mestiere,
É un coupon da consumare,
Una cosa di carta
Che fatico a considerare.
Mi basta vederti Luna,
Avvolta nel tuo silenzio e bellissima,
Ornata di disprezzo
Per il tuo pubblico
che tramonta degnamente,
Da sempre,
Senza difficoltà alcuna,
Senza curarsi più di te.
Non è ancora notte,
E già, per tutto, ti ho perdonato.
Per congedarmi, René Magritte, Il Maestro di scuola, 1955
In questi giorni sono stato travolto. Certe scelte portano un carico di fatica che spesso si rivela più pesante del preventivato. Ma ce ne accorgiamo tardi. Da tempo, prima di ogni slancio, di ogni atto di eroismo da discount, mi faccio la stessa domanda:”cosa sei disposto a perdere…”. Non c’é mai una risposta netta. Solo una paura senza forma. Inconsistente e penetrante. Questo stato di cose l’ho riletto in una poesia di qualche anno fa. Le cose che si scrivono si attualizzano con lo stagionarsi. La poesia è un investimento di emozioni per il futuro. La scrissi quando avevo tutto da perdere ed ero confusamente felice. Me la dedico.
Ricordi la speranza di quel viaggio…
L’autostrada non più stretta:
le fermate, i caselli e gli occhi lucidi
di eccitazione e fretta,la memoria
tra giochi e truffe,
lo spiazzo dei progetti e dell’amore aperto a tutti.
Di me, rivedi il coraggio oltre il limite per quel volo?
Le senti le sirene e il loro canto:
“è ancora lontano…
…avete tempo…andate piano”
(com’era facile prenderci per mano ).
La benzina ( troppo cara per essere felici ) è calata e prossima è l’uscita.
Traguardi ne avrò ancora, ma allo scoperto, in colonna,
oppure senza sosta
con dentro quel sorriso,
del biglietto che mi hai posto,
quel frammento di ricordo
ora sporco e senza viso,
che non sono disposto a perdere.
Per esagerare, un dipinto raffigurante il Faust, a monito mio e non solo.