michele casella

Diario minimo

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Orazione funebre

A Cula

É morto Cula. Molti potrebbero, maliziosamente, pensare ad un soprannome che, nel periodo del politicamente corretto, abbatte l’etichetta del bon ton, e allude ad una certa inclinazione sessuale. Non è così! La mia gente, impantanata nelle Valli Grandi, ha un pudore antico e non parlano mai, credo neppure pensino, del sesso e delle sue sfumature. Sono asessuati nel pensiero ma non nelle opere.

Cula è stato un sacerdote dell’infanzia. Non è mai cresciuto, non per indolenza, non per mancanza, non si tratta di un “incompiuto”. Lui ha voluto mantenere un’ingenuità, come se il restare bambino, sotto certi versanti, fosse un privilegio.

Cula è rimasto un fanciullo, anche a sessant’anni. Un fanciullo giocoso, a volte triste, inaffidabile, esagerato solo come chi ha eternamente fame (e lui ne aveva tanta, anche in senso letterale) sa essere. Cula è morto, è morto un fanciullo di 200 kg.

Cula è il soprannome dato per le sue esplosioni di gioia. Questo eterno ragazzino, quando la felicità lo soverchiava, come somma espressione di giubilo, si calava i pantaloni e mostrava il suo luminoso e rotondo “deretano”, una pagnotta al latte solcata da un punto esclamativo.

Mu Boyan, 点 (Dot), 2013

La sua infanzia si è dilatata e cristallizzata. La sua ostinazione a perdere i treni e le coincidenze, a giocare a calcio con noi ragazzini, a rincorrere le farfalle e le ragazze, lo ha fatto diventare un mito, un adulto per finta, un folletto.

Ha succhiato tutto il dolce che si può trovare in giro, non si è svezzato; il mondo è diventato grande e lo ha lasciato solo.

Mi è rimasta per qualche tempo la convinzione che il tempo fosse un vecchio orologio di campagna, quelli rotondi e di plastica con il logo di qualche mangimificio, che si poteva rompere con una pallonata. Mi ha cullato questa speranza, per anni. Seppur intaccato dallo sporco delle cantine e dallo sterco delle mosche, quell’orologio e le sue lancette hanno continuato a girare.

Di Cula mi rimangono dei ricordi limpidissimi.

Quando giocavamo a calcio nell’aia di casa sua, che era anche la casa del mio amico d’infanzia, suo nipote, lui entrava come un tuono e colpiva con forza mostruosa la palla. Uno Zeus panciuto che aveva  un sinistro missilistico.

Non l’ho mai visto lavorare.

Una volta in una scorribanda in bici, lo abbiamo intercettato sulla sui 127 blu rally edition, con i fendinebbia rotondi gialli, mentre stava in un pioppeto a fare l’amore. Il suo bianco culo ondeggiava candido come la luna sospinta dalla marea.

Le sue storie erano magiche. Noi ascoltavamo allampati, certi che il vero Vero  uscisse dalla sua bocca, come acqua per noi che eravamo nel deserto. I suoi erano racconti di un’epica minore , fatta di impennate in moto, derapate e accelerate fantasmatiche, di trattori con ruote enormi impantanati sino alla cabina e liberati da forze titaniche, dal volere del nostrano dio pagano, Il Grande Trattorista, che plasma le menti dei giovani che non affogheranno mai nella poesia.

Tutto era grande, tutto era pieno dell’energia dei bambini, tutto divertiva e poi convergeva in Cula, il nostro oracolo. Lui parlava da grande ai bambini e noi ci sentivamo quello che non eravamo, uomini veri.

Pedrito a Cavallo, Fernando Botero

Il ricordo più bello è quando ci portò a fare il bagno nel fosso. Si spoglia ed entra in questa scolina avvolta da piante dai nomi sconosciuti e poco nobili. Lo seguii anch’io. Lo seguiamo tutti. L’acqua era pulita tanto che la vegetazione sommersa sembrava dipinta e artificiale. Facevamo tuffi in un metro d’acqua e lui si divertiva forse più di noi. Siano rimasti lì ore, senza rimedio, senza angoscie, liberi come dovrebbero essere i bambini.

Poi sono diventato grande. Io non sono resistito al flusso della vita. Mi sono arreso. Cula e la mia infanzia si sono rarefatti nella mia memoria, dissipati dal tempo e dalle cose da fare.

Cula rimane un’icona bella della mia vita passata. Non ci ho mai pensato. Ora che non c’è più, l’ho tirato fuori dalla dimenticanza con cui lo avevo avvolto.

In questo poche righe, con affetto, lo ricordo, con tanta gratitudine. Tanta.

Tutte le donne della mia vita

A mia nonna
Che mi ha cresciuto
Con la durezza dei contadini
Ed il calore
Delle lenzuola felpate.
A mia madre,
Che mi ha rincorso per anni,
Ed ora mi aspetta,
Per un pomeriggio,
Per un po’ di fresco,
Nei suoi grandi occhi lucidi.
A quelle che ho amato,
Tra il serio e il distratto
Hanno dipinto di giallo
un angolo della mia storia.
A Debora che mi accolto
Con tutta la fragilità del mondo
E mi ama con tutta la forza delle donne.
Grazie alle mie stelle,
Che luccicano in un cielo inquinato di luce:
A Maria Chiara che mi consola,
A Benedetta che sorvola il mondo,
A Miriam e alla sua forza
E Rachele che mi guarda
Col suo musetto tondo.
A Sosina,
Che cambia tutto in meglio,
E segna le coordinate
Della giustizia che mette radici
E della pace che regna.
A tutte le donne della mia vita,
Quelle amate, sconosciute, stimate,
Passate come la neve marzolina,
Tenaci nel ricordo, feconde nella vita,
Come la terra inviolata.
Grazie, con la gratitudine del ramo,
Ad aprile, dopo mesi di brina.

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Rachele

Oggi la piccola di casa compie due anni. È arrivata senza invito. Ha preso il suo posto nel momento in cui ero così fragile, da renderla insostituibile. Non passa giorno che per qualche minuto non soffra di vergogna per la paura che invase il mio cuore quando mia moglie mi disse, con gli occhi lucidi, che la vita era germinata ancora in lei, in noi. Eravamo già in tanti, ma alla fine non in troppi. L’amore ha sovrabbondato. La Vita ha fatto il suo viaggio carica di doni e Rachele ne è stata il capitano. Oggi è qui, a presidiare il mio mondo, con la sua scopetta e le ali da fatina, con il pollicione da succhiare che consola generoso tutti, non solo lei. Quando ho bisogno di purezza lei mi accoglie con i suoi immensi occhioni, in cui posso lavarmi da tutto ciò che mi rende meno buono. Mi consola abbracciandomi, e quando si accovaccia su di me come uno scoiattolo, mi sento un eroe che culla la sua principessa. Ringrazio Dio, la Provvidenza o il Destino di avermi affidato a te bambina mia, con la tua manina mi sostieni e con il tuo passo traballante mi conduci lontano, sino a dove potrò accompagnati. Mi dedico un’opera d’arte. Rachele.

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