michele casella

Diario minimo

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25 marzo

Pietro Gaudenzi, Maternità (1932 circa; Fondazione Cavallini Sgarbi). Foto Mauro Coen, Roma. Immagine tratta da www.finestresullarte.info

Mia figlia è una mamma dagli occhi trasparenti:

quando guarda le sue bambine, scroscia dolcezza

come se fosse marzo dopo un ruvido inverno.

Ha tolto il velo che la proteggeva dal sole rovente,

ha affrontato luglio spavalda, avida e sfrontata.

Da piccola era già mamma, facendo la spesa

giocava coi pacchi di spaghetti,

li accudiva, li accarezzava,

li deponeva dolcemente nei sacchetti.

Mia figlia è una madre principiante, senza patente:

si addormenta, corre, ride sguaiata e al buio piange.

Ha nel cuore sentimenti grandi che nasconde;

quando la vita, col suo furore, le dà uno scossone

qualcosa cade in lei e nel mondo c’è un gran rumore.

Mia figlia ha preso una strada in salita,

sbuffando arranca con allegria,

col suo zaino pieno,

con la robusta leggerezza e la pia incoscienza

di chi cerca di risolvere,

nella vita, tutto con l’Amore.

È tornata nel rotondo del nostro cuore

dopo che ha dato un’occhiata in giro,

forte di tutto lo spavento e la fragilità

che è stata mia, nostra, di mamma e papà.

Mia figlia ha tanto da dare,

lo dimentica a volte, oppure lo nega.

Quello che fa, lo fa col cuore di chi si ostina

a camminare grondante sotto la pioggia,

di chi scrolla l’inadeguatezza ogni mattina,

di chi vede oltre ogni convenienza,

per fare e disfare e per poi rifare.

La mia bambina è una mamma

piena di speranza, senza “para” particolari

che attende il “delivery” delle occasioni.

La mia bambina è una mamma brava,

e non gliel’ho detto mai.

La mia bambina è una donna forte

e conosce la differenza abissale

tra il “vero vero” e il “non si sa mai”.

Marc Chagall, Madre e figlio, 1953, olio su tela, cm 75 x 54, National Gallery of Victoria, Melbourne. Immagine tratta dal sito www.didatticarte.it

Compleanno di una stella

Quando sei nata 

l’alba ha cantato, 

col becco degli sprovveduti, 

appena svegli, in un bosco improvvisato, 

fuori dalle finestre del vecchio ospedale, 

che ti ha visto arrivare e poi ha chiuso. 

Quando sei nata 

la fragilità ha imparato a vestirsi 

di forza elastica, un giunco verde 

col pennacchio della grazia. 

Albrecht Dürer, Leprotto (1502; acquerello e guazzo su carta, 251 x 226 mm; Vienna, Albertina)

A volte non ci sei,  

anzi, sembri di passaggio,  

con lo sguardo punti altrove, 

 e i tuoi pensieri si confondono, 

tra l’oro e il sogno dei tuoi capelli, 

come le pozze d’acqua dopo il temporale, 

tagliate dalle biciclette impazzite. 

Dove vai, dove migri, ti eclissi per sorgere altrove? 

Sei la gazzella che sgambetta, 

vigile e silenziosa, 

che frugale bruca l’erbetta, 

senza far rumore. 

Albrecht Dürer, La grande zolla (1503; acquerello e guazzo su carta, 410 x 315 mm; Vienna, Albertina)

Sei bella senza saperlo, 

lasci luce nella stanza, 

in compagnia delle tue scarpe sporche, 

(gioia di tua madre), 

smarrite e delicate, come le tue scuse.

E poi, volo di farfalla, le tue dita elettriche, 

sul pianoforte danzano, forte,

profumando di Bach 

il ruvido quotidiano che ci abita. 

Sei dolce e non lo sai, 

ma il tuo cuore lo sa, 

e batte forte, forse troppo. 

Albrecht Dürer, Cervo volante (1505; acquerello e guazzo su carta, 141 x 114 mm; Los Angeles, J. Paul Getty Museum)

Sei preziosa, solo perché ci sei, 

e non serve altro, se non l’imbarazzo, 

che ti avvolge come il plaid rosso, 

nel quale, crisalide, ti abbozzi. 

Non serve altro, a te, 

per essere speciale, 

per essere stella, tra le tante. 

Non sei il centro del mondo,  

ma senza di te il mondo 

sarebbe un posto peggiore. 

19 febbraio 2025

Immagini tratte dal blog http://www.finestresullarte.info

Cosmologia artistica: breve trattato sull’arte, chiave interpretativa dell’Universo

ALCHIMIA-POLLOCK

È evidente che il mondo sta procedendo in modo irrefrenabile nella sua corsa entropica verso il disfacimento. Anzi, mesciando altre teorie, verso la “ricreazione”. L’universo non è votato all’autodistruzione, procede inesorabile ad un qualcosa “altro” che non possiamo concepire. In questa pillola ci sta dentro ogni teoria: quella del “Tutto”, della “Generazione continua”, “L’eterno immobile” e del “Sommo orologiaio”. Troppi virgolettati, ma sono un principiante del pensiero. Noi cosa ci facciamo su questo veliero alla deriva nello spazio-tempo? Siamo semplici clandestini che possono mirare i flutti dell’eterno senza comprenderne il senso? Alcuni strumenti per intrappolare nello scibile questa immane vicenda dell’evolversi del tempo e dello spazio ci sono stati dati. Voglio parlare brevemente solo di alcuni: la linea, il colore e l’occhio.
La linea è una codice umano, non esiste in natura. Grazie ad essa però possiamo delimitare virtualmente lo spazio. Lo possiamo contenere al fine di una possibile traccia. Dargli forma, recintarlo, antropomorfizzarlo. La linea fissa razionalmente la percezione dello spazio. Lo fa dapprima imprigionandolo, poi reinterpretandolo in uno slancio di assoluto. È una causa ed un effetto: l’esigenza impellente dell’uomo di decifrare e nel contempo, dopo un percorso di astrazione, liberare il visibile, con il segno, travestendolo in pensiero. Dalla razionalità rinascimentale all’astrattismo, dal turbinio barocco al neoclassicismo, tutto si può fissare in una lotta interpretativa dello spazio, nel tentativo di contenerlo nella mente occlusa dell’uomo. Piero della Francesca e Canova insegnano.
Poi c’è il colore. Questo è la sintesi della luce e della materia. Cos’è l’universo se non luce e materia? L’uomo è una delle creature privilegiate. Può percepire il mondo sensibile a colori. Molte altre creature non sono attrezzate per vivere questa esperienza. Qual privilegio! La nostra vita come dono cromatico, come esperienza della luce che impastandosi con la materia, genere se stessa. Il colore è il timbro del tempo sulle stagioni, l’alfabeto del sensibile infinitamente vario e del percettibile alla mente limitatamente eterno. Il colore basterebbe a se stesso per una rappresentazione della realtà. Ma resterebbe eternamente solo, malinconico. Ma il colore può peccare di autoreferenzialità. Eccone le prove. La pittura materica dell’ultimo Tiziano, macchie di colore stese con le dita, El Greco con la placche cromatiche della sua espressività trasognante, Rubens e l’approssimazione della luce sviluppata con il colore. Sino ad arrivare agli impressionisti, Seruat e il divisionismo, sino a Mondrian, il blue di Yves Klein, Rothko e i suoi monocromi spirituali, tutto l’espressionismo zolloso e maniacale di Pollock, sino a “Le Gros” di Franz Kline con la sua linea di colore, tratto dell’individualità della pennellata, stigma del Novecento. L’esperienza cosmica del cromatismo, dei suoi elementi materia e luce, è avvincente.
Arriviamo all’ultimo compagno di merende: l’occhio. Senza di lui sarebbe la notte, una notte senza stelle. L’occhio é la finestra del pensiero. Solo grazie a questo, trova un senso l’arte Concettuale, quella Povera, Land Art e Minimal Art e il Melting Pot.
Tutto questo per affermare che l’universo è un’immensa opera d’arte, che con la linea, il colore e grazie l’intercessione dell’occhio, possono essere possedute in modo fittizio ma carnale. Ma l’uomo questo non lo capisce, condannato a sbranare senza conoscere l’essenza.
Cinque opere che rappresentano questo pensiero.
Una raffigurazione del cosmo, con la tangibile esperienza della linea e del colore: Vasilij Kandinskij, Ognissanti I, 1911
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Piero della Francesca e la linea: Flagellazione di Cristo
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Cattelan, il Dito. L’occhio viatico del pensiero.
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La solitudine dei punti e del colore: Study for ‘The Channel at Gravelines, Evening’ – Georges Seurat

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Tiziano, autoritratto, particolare. L’occhio, la luce e la ricerca della linea.
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Alla prossima.

Piccolo mondo antico

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A volte succede. Ti prepari velocemente per arrivare trafelato e sudato ad uno dei tanti incontri dettati dall’incarico amministrativo, sottomesso stoicamente alla routine, ed invece vieni baciato dalla sorte, dalla generosità del destino. Tre giorni fa ho vissuto un’esperienza mistica. Forse è troppo definirla così, ma non costa nulla…. Diciamo che ho passeggiato in carne ed ossa in un quadro, anzi nell’estetica di un artista: Paolo Caliari detto il Veronese. Ieri poi, quasi condotto da una mano invisibile, ho visitato la mostra in Gran Guardia a Verona ( http://www.mostraveronese.it ), ben curata e con un ottimo catalogo, dedicata appunto al Veronese. Lì il cerchio si è chiuso. A Villa Baja Guarienti a Tarmassia è iniziato però un viaggio. Grazie alla padrona di casa, di una sensibilità ed intelligenza che giustificano l’effige della nobiltà, mi sono immerso nella storia della sua famiglia, dal seicento, con la discrezione di chi calpesta con cauta reverenza il tempo e suoi frutti. Il richiamo al Veronese non è scoccato dalle stampe sparse qua e là delle sue opere più famose. Neppure dalle grandi tele, inscurite dal tempo, di artisti minori evocanti la monumentalità della scena, i panneggi e il dettaglio del pittore del lusso veneto. Il rimando è venuto dal silenzio, che ti pervade nelle stanze della Villa. E l’ho rivissuto nei saloni della mostra. I quadri del Veronese sono una celebrazione della non parola, della rappresentazione articolata, particolareggiata, complessa e lussureggiante, ma muta. I suoi personaggi sono presi da un’estasi di realtà a causa della quale non riescono a proferire parola. Anche a Villa Baja ho provato la sensazione di un blocco del parlare, dell’eloquenza. Anche lì regna un universo pieno di dettagli, richiamante altre epoche, composto con grazia domestica ed immerso in un silenzio quasi sacrale. Da Tarmassia, la frazione in cui la Villa vive con discrezione, a Verona, con il Veronese, con i suoi quadri, in una mostra piacevole, con delle sorprese.
Al tempo che matura nella villa e alla minuziosa tensione al particolare dei quadri della mostra dedico questo mio stato di intimismo. E mi dedico “La cena a casa di Simone”, presente in mostra, con la sua folla silenziosa e la cura nel riprodurre il quotidiano e le scene della vita.
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L’industria del turismo

Poi arrivi al Louvre e ti manca il respiro. Il mondo è qui e per soli 12 euro. Una miseria per godere della storia dell’umanità degli ultimi 5000 anni distillata in segno, colore e materia. Come ci si sente piccoli e fortunati. Il mistero degli egizi, il protobarocco etrusco. La razionalità artistica dei greci, i volumi e il realismo romano e il ritratto alessandrino. Poi tanta Italia per arrivare a quel fenomeno di costume che è la Gioconda irrisa da quel francese secco e vitale di Duchamp. Tizian, Caravaggio, Mantegna. Una degna delegazione.
L’esserci vale il viaggio.

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