24 gennaio 2023
di michelecasella
La memoria come spazio del ritrovamento. Scrivere il mio diario partendo da un distillato della mia memoria. Potrei ricostruire un filo.
La memoria come mappa per tornare indietro a ciò che eravamo primitivamente o a ciò che avremmo potuto diventare. Alcune domande sono ricorrenti: se non mi fossi sposato, se fossi scappato in alcune occasioni, se avessi avuto maggior coraggio o mi fossi lasciato ammaestrare dalla paura …Il “se” non è un rimpianto, ma un’opzione.
Un ricorso al passato da osservare con il beneficio del doppio.
Luci, parole, flashback intesi come componenti di una psichedelia acida, sfocata, dai contorni giallognoli, ma piena di possibilità.
Parlare, scrivere, rimembrare come se tutto avesse un senso certificato dall’ontologica comunicazione della presenza. Scrivo della vita quindi è vita! È vita? Qui abbiamo un altro doppio.
Ma la sostanza su cui poggiare le parole può essere immaginazione, fantasticheria, menzogna deliberata. Non sono ancora convinto. Non voglio cedere al bisogno. Sono smarrito a causa della mia determinazione. A questo punto non mi resta che scrivere.
Il sole mi avvolge.
Questo è il ricordo di infanzia più limpido, forse il più nitido di tutti. Ho tre anni, lo ricordo benissimo. A tre anni passavo molto tempo con la mia cara nonna Rina. Lei per me è stata forse una mamma, discreta e silenziosa, presente, anzi, onnisciente. Quando io sono nato, suo marito, nonno Vittorio, è morto. La sua presenza, come anima in attesa di essere accolta nell’Ade, sembrava essersi depositata in me. Lei mi adorava, spesso in modo immeritato. Nelle mattine d’estate le stanze al pian terreno della nostra casa erano fresche, di un fresco vivo, frizzante, antico. Quel fresco che gli attuali condizionatore d’aria non riescono a replicare. Le stanze erano fresche ed erano grandissime. Oggi, che saltuariamente faccio visita a quelle povere camere in cui i miei genitori hanno deciso di concentrare tutta la loro quotidianità, mi sembrano così basse e anguste. Allora quelle stanze erano enormi; tutto odorava di vernice fresca, di muffa buona, di primavera in pioppeto. Con la nonna stavo bene. Era lì, ma non c’era. Facevo le mie cose, vegliava su di me, ma mi faceva sentire libero. Questa è una dote che hanno le donne antiche: colgono il momento per farti crescere e lo fanno senza pianificarlo. Fa parte del loro corredo di madri e di donne, fatto di un’umanità a volte spigolosa, ma genuina, rude, ma che incrocia l’essenziale. Con lei le mattinate passavano tra giochi di fantasia, avventure tra il tinello e la cantina. Alcuni appuntamenti scandivano questo momenti epico. La visita di Nello, il cognato di nonna, guardiacaccia e segretamente innamorato di lei. Il rombare di mio padre con i trattori sull’aia mentre si affaccendava a lavorare e a preparare l’attrezzatura. I cani che abbaiavano ad ogni piè sospinto. La torrida luce che verso mezzogiorno invadeva le finestre sottili e minuscole del nostro rifugio. E poi c’era la visita del Fiorino del panettiere, che sgasava sullo sterrato che portava a casa nostra. Il nostro panettiere parlava una lingua strana, “il ferrarese” mi diceva la nonna. Non capivo, capivo solo che la sua parlata era strana, ruvida, grezza ma con una dignità superiore alla nostra “cantilena”. Mi piaceva la situazione che montava e preannunciava il suo arrivo: lo sbattere della portiera, il suo passo appesantito, il suo vociare dall’aia per annunciarsi. Quel giorno fui più lesto di mia nonna. Appena riconobbi il rombo del panettiere corsi verso il portone della cantina. Per me fu un’impresa ardua, ma riuscii ad aprire il portone, lasciato socchiuso. O forse lo aprì lui sentendomi armeggiare. Appena si apri fui investito da un’immensità di luce. La fresca ombra che mi avvolgeva fu spazzata via dal sole, dalla sua forza. Rimasi accecato per un po’. L’uomo di cui non ricordo il volto mi chiese nel suo dialetto: “bel bambino, quanti anni hai?”. Alzai la mano e con le tre dita della mano sinistra, ai tempi ero mancino, cercai di arginare il sole. Le tre dita divennero come una specie di amuleto inondato di energia, come una mossa magica gradita a Ra. Il sole mi avvolse e mi lasciò senza fiato. Mentre vivevo la mia estasi apollinea, la voce pastosa del panettiere mi riportò lì. I miei occhi si abituarono e lui, con un sorriso aperto ma reso incerto dai denti pieni di malanni, farfugliò qualcosa che non capii, salutò la nonna che mi venne in soccorso e se ne andò. Quell’ondata di sole la ricordo come ora. A tre anni ho fatto un bagno di luce e ne sono uscito vivo.