
Capita che per strani motivi si facciano viaggi inutili. Parti con un programma, poi per tutta una serie di circostanze, si viene condotti altrove. Così è stato per noi. A Torino, per una mostra su Modigliani, attesa, quasi sognata, deludente. Come spesso accade, le delusioni portano benefici insperati. Non sempre, ma a volte accade.
Vagabondando per la città torrida ed esoterica, aspettando un treno, con Debora iniziamo a parlare. Cose inutili, discorsi abbozzati e subito sciolti dal caldo.
Ad un semaforo, spossati. Aspettiamo il verde. Dietro ad un anziano, con il bastone, un uomo vestito di saggezza. Aspetto il momento per partire. Il vecchio parte ed io lo seguo fiducioso, senza pensarci. Uno scooter a velocità pazzesca mi sfiora, ho sentito il sibilo della morte sfiorare le mie chiappe. Sono frastornato. Ho seguito il nonno, una persona saggia, prudente! Forse un po’ rincoglionita. Il caldo africano come attenuante,
Sta di fatto che è tornato a galla il pensiero della morte. Un pensiero che ogni tanto mi visita, senza creare grande fastidio.
Una compagnia che genera vita abbondante, riflessioni. Da tempo nel mio taccuino tengo delle bozze, una poesia sulla morte. Ho immaginato la mia. Una bella esperienza, di grande fecondità.
Tornando col treno l’ho rifinita. L’ho resa viva. Grazie al caldo, ad un vecchio apprendista suicida, e al tremore di un incontro ravvicinato con la carena di una moto, sparata a tutta velocità sull’asfalto tremulo, infernale.
Morirò a maggio
Sotto l’acacia ombrosa
Piantata da mio padre.
Lo farò col poco garbo imparato,
Apparendo pronto, non rassegnato.
Staccherò il biglietto per il viaggio,
Senza il clamore, senza il cuore impavido
Dell’epifania e dei suoi falò,
Che ho sempre sperato di custodire nel petto,
Ma che ora, tutto sommato, non serve più.
“Casella, un po’ di contegno!”
Sbotterà la grassa rosa,
Quella bianca latte,
Da mia madre coccolata
Con disordine e cura.
Il titolo per il viaggio, per il “diretto”,
Lo consegnerò col dovuto rispetto,
Senza fronzoli, senza inutile omaggio.
Morirò prima del caldo, prima delle sieste assolate
Prima che gli insetti molesti invadano il meriggio.
Sarà mia, solo mia la gioia galeotta
Di chi ha respirato la primavera,
Con la sazietà dolciastra,
Del vino di cantina, del formaggio e del pane.
Appoggerò il pianto serbato, oramai liquoroso,
A sgabello dei miei piedi dalle unghie spesse.
Sfilerò il fazzoletto,
Quello a righe della festa
Custode dei miei tesori.
Li terrò nelle mie mani da vecchio studente,
Coccolandoli con le ciglia,
Prima che la luce si spenga,
Il tramonto mi accolga
Come una giacca stretta,
E le tenebre tirino il grosso chiavistello
Della mia nuova casa.
Solo Venere ancora a farmi da lampada.
Avrò gli occhi forse un poco lucidi,
Poco prima di calare il sipario.
Sulla scena del mio ultimo applauso,
Rivedrò a batter le mani in piedi,
Osannanti,
Le Occasioni, i fatti salienti,
La gioia ordinaria, l’anonimato dei giorni,
Il logorio della delusioni
l’inconsapevolezza della fine,
Svanita d’improvviso come le foglie dal salice.
La Gratitudine mi lascerà lì ancora un paio di minuti,
Poi le ultime cose,
Pesare ciò che resta della voglia,
mischiarla con un po’ di tabacco e meraviglia.
La gloria rimasta
Nei capelli stanchi
Mi scivolerà giù,
Accarezzando le orecchie molli,
Non più turgide, che impazzivano
Tra le dita eccitate delle mie bambine.
Prima del tracollo vorrei sentire
La voce di mia moglie, che mi chiama per la cena,
Mi sgrida per le tante fragilità che ci hanno reso forti.
Vorrei sentire ancora la sua voce
Prima di passare il ponte.
Arrivato, accendere il sigaro buono,
capire chi aveva ragione,
Sgridare bonariamente chi ha fatto troppo silenzio,
Sedermi ancora e cominciare a ridere.