michele casella

Diario minimo

Contro una società di somari

La politica non c’entra. Nulla assolutamente. Ora che il decreto Gelmini è passato al Senato posso, alla luce della mia coscienza e della convenienza, esporre un pensiero sulla spinosa questione della riforma della scuola italiana. Ma prima d’iniziare ribadisco con forza che la politica non c’entra, la questione forse è servita per riattizzare la querelle politica. Ma con questo scritto la politica dei partiti non ha nulla a che vedere.
La riforma prevede il famigerato maestro unico. Una figura romantica sicuramente. Molti di noi hanno iniziato la loro carriera scolastica con questa figura che spesso incarnava più il pedagogo di stampo attico ( il maestro di vita ) che il semplice docente. Sicuramente per molti la figura del maestro unico è stata tra le più significative della propria esistenza. Mel mio caso la mia maestra fu il primo amore. Quindi nessuna opposizione aprioristica alla riforma. Poi leggendo attentamente il decreto ci si accorge che le classi non potranno avere una composizione inferiore ai 25 studenti. Cioè 25 alunni minimo ed un solo maestro? Poi addirittura meno ore per ogni maestro … Si insinua il dubbio che la scelta del maestro unico non sia stata mossa da istanze educative, ma da necessità di bilancio. Che tutto il decreto sia un’operazione di alleggerimento delle spese. Questo a discapito di chi? Ovviamente dei più deboli, cioè i bambini. È inconcepibile immaginare una classe con magari una trentina di bambini, considerando quanto sono svegli i bambini oggi, di varie nazionalità e quindi con una padronanza linguistica diversificata, con un solo maestro. Il maestro diverrebbe un presidio disarmato che si oppone alla complessità sociale, alle difficoltà di integrazione, che tenta di arginare la fragilità di cui i nostri piccoli, oggi, sono invasi. Questo modello rischia di diventare un’esperienza che brevemente porterà ad una scuola incapace di formare alla vita. Non per demerito degli insegnanti, a cui va tutta la mia personale stima, ma per l’impossibilità che si viene a creare per decreto legge ( sa tanto di decreto regio …) di accompagnare e di seguire in modo individualizzato il bambino. Arriveremo ad una scuola che riuscirà a formare quei bambini con una marcia in più, quei piccoli con delle famiglie che possono dedicarsi massicciamente alla formazione intellettuale ed umana dei propri figli. Lo so! Tutte le famiglie lo dovrebbero fare ma sappiamo bene che in realtà le famiglie spesso hanno delle difficoltà a stare in piedi e ad affrontare il quotidiano. Tranne le famiglie ricche che si avvalgono delle scuole a pagamento, di straordinaria qualità. Una scuola dunque che consegnerà alla società dei bambini pronti ad intraprendere la splendida avventura della crescita, ed altri invece che avranno accumulato molti fallimenti, la consapevolezza di non farcela, di non essere all’altezza. Di essere dei somari. La scuola che dovrebbe essere l’esperienza dell’inclusione diventa così la fabbrica dell’esclusione. Sarebbe stato utile al ministro Gelmini passare qualche giorno con i bambini che pagano di persona, e non per responsabilità propria, l’essere nati in una famiglia con delle difficoltà, e quindi di avere bisogno di maggiore cura per poter fiorire. E vi garantisco che sono energie ben spese. Se ci rassegniamo al fatto che chi nasce in una famiglia senza grandi mezzi debba stagnare nella problematicità oppure che chi ha delle difficoltà relazionali, pur avendo delle potenzialità, debba essere estromesso e non inquadrato nel sistema scolastico, soffochiamo alle radici il progresso della nostra civiltà. Cito l’esempio di Albert Einstein, scolasticamente incompreso a causa di un sistema scolastico rigido, poi diventato l’uomo che conosciamo ( http://it.wikipedia.org/wiki/Albert_Einstein ). La scuola va riformata non perché non ci sono più soldi, ma perché bisogna mettere nelle migliori condizioni il bambino al fine di farlo diventare un adulto felice. I bambini che non staranno al passo, i bambini che verranno esclusi, tra un quindicina d’anni presenteranno il conto alla società e sarà anche allora un costo per noi tutti, oltre a tutto il bagaglio di frustrazione che si porteranno addosso.
Se vogliamo risparmiare possiamo partire dalla riduzione del numero di parlamentari e dal taglio dei loro stipendi. I nostri parlamentari sono tra i più pagati e sicuramente tra i meno capaci, scolasticamente parlando. Alla fine può interessare a questo signore che ci rappresenta la formazione globale del bambino? Peccato che il parlamento sia a numero chiuso e non possa accogliere tutti i somari che questa scuola sfornerà con questa riforma. Ma anche in questo caso la politica non c’entra e soprattutto non ha fatto centro. 
Sui brillanti risultati scolastici dei nostri rappresentanti provare per credere.

La differenza tra sesso a pagamento e il sesso che “appaga”

Gentili amici oggi affrontiamo un argomento delicato. Non perché tocchi le parti più intime della nostra persona , ma per alcuni retaggi di una cultura maschilistica e banale che difficilmente si debellano. Da giorni si parla sui media della questione prostituzione. La sequenza dei titoli, che fanno emergere chiaramente come si vuole presentare il problema alla massa, dà un messaggio che è come al solito estremamente riduttivo: ripulire le strade, aprire i quartieri a luci rosse, legalizzare la prostituzione per annientare il racket. Ogni tanto si lambisce il tema della schiavitù senza troppa foga. Si sa, concentrarsi troppo sull’umano, al giorno d’oggi, potrebbe distogliere dalle cose veramente importanti. Provo a proporre ora una mia particolare prospettiva nell’affrontare il problema. Lo faccio partendo dal sesso e concludendo sempre con lui, cioè il sesso. La sessualità è l’esperienza magnifica e fondamentale che vive un uomo e un donna tra diversità e complementarietà. Quindi nessuna esternazione moralistica sulla continenza come unica via virtuosa. Chi propone l’astinenza lo fa non perché abbia timore della potenza vitale della sessualità ( almeno me lo auguro ), ma perchè ne conosce l’importanza e quindi la necessità che essa si esprima pienamente nella relazione. L’amore tra uomo e donna non può ridursi ad un evento meccanico, cioè all’incontro genitale. La relazione sessuale ha bisogno, per esprimersi, della donazione totale, della conoscenza che parte dall’attesa dell’altro, della conoscenza profonda che accetta il dialogo come arricchimento reciproco e non cerca esclusivamente la soddisfazione personale. Solo così il piacere è totale, rigenerativo e fecondo, sia in senso procreativo che in senso unitivo. Fatto la premessa parliamo del sesso legato alla prostituzione. Alcuni affermano che il sesso a pagamento è l’incontro tra la libertà di una donna di disporre del proprio corpo e della libertà del maschio di “comprare” quel corpo per un momento. Affermazione che commercialmente non ha nulla di sbagliato. Umanamente però va a demolire tutta la ricchezza coniugale e quindi va a privare la società del bene e dei doni che la coniugalità può garantire. Se la sessualità diventa l’incontro tra due bisogni fisici, la relazione può andare a ”a farsi fottere”( per restare in tema ). Ma siamo certi che si tratti dell’unione tra due libertà oppure si tratta dell’incontro tra due schiavitù? Sì, proprio così, due schiavitù: la schiavitù del maschio verso il proprio pene e nei confronti della propria incapacità a conquistare una donna con il proprio mettersi in gioco e la schiavitù di una donna che è stata resa prostituta dalla propria storia e dagli uomini che ha incontrato. Dunque, la mia posizione è netta. Il commercio di sesso ( la prostituzione ) è l’incontro tra due schiavitù. Mi si può dire che comunque è un fatto personale riconducibile alla libertà individuale. Va bene, lo posso accettare. Ma se nel caso delle donne non ci fosse una libera scelta? Se ci fosse la costrizione, la schiavitù, la vendita, in poche parole il commercio di carne umana? In questo caso cosa si fa? Per garantire la soddisfazione del mercato degli istinti maschili siamo disposti a permettere la schiavitù? Su questa domanda ci giochiamo la nostra civiltà. Se non si può garantire in assoluto che nessuna donna verrà schiavizzata ed usata come un oggetto per la soddisfazione dei maschi, penso che il problema della riapertura delle case chiuse sia già risolto. Le case che sono state chiuse per civiltà, per civiltà chiuse devono rimanere. E ai maschi che non vogliono e non sanno conquistare una donna corteggiandola e si riducono a comprarne il corpo, consiglio i vecchi metodi dell’autoerotismo, gratuiti, indolore e senza complicazioni sociali. A chi in assoluto non è d’accordo a tutto quello scritto sino a questo punto, faccio un’altra osservazione. Se le donne che si autodeterminano, facendo una scelta professionale chiara, cioè quella dell’operatrice del sesso, lo hanno sempre fatto e lo faranno ancora, nella propria casa gestendo in proprio la propria impresa, perchè c’è bisogno di istituzionalizzare la prostituzione come servizio alla collettività? Qui tocchiamo un ‘altro punto, forse il più delicato e dal mio punto di vista, il più trainante: il mercato. Esattamente. È un problema di mercato. Infatti le escort, le prostitute di classe, che lavorano in proprio, quelle brave e pulite, sono giustamente care. Dico giustamente “care”, perché in un’economia di mercato la qualità si paga. Quindi tutta la questione la possiamo ricondurre a questo. Potrà sembrare un atto eccessivo di semplificazione, una forzatura. Ma credo che sia una prospettiva mai sufficientemente presa in considerazione quella del mercato. Dunque facciamo un paragone facendo un parallelismo, mettendo una accanto all’altra la carne e la prostituzione: abbiamo le gastronomie di pregio, la grande distribuzione e i discount. Ma se i consumatori possono accedere alla carne spendendo comunque meno chi ci garantisce che non venga fatto? E su questo ci giochiamo la nostra civiltà, perché non è un problema di morale e di ordine pubblico, ma umanitario. Chi riuscirà a garantire che nessuna donna verrà venduta e consumata come carne, con la violenza e la costrizione, questo qualcuno potrà parlare della possibilità per un uomo ed una donna di incontrarsi intimamente su corrispettivo. Rimane da affrontare con i legislatori il problema dei consumatori. La prostituzione è l’unica piaga sociale in cui il consumatore e quindi colui che alimenta il mercato, non viene perseguito. È più semplice perseguire un tossico o un ubriacone. La persona distinta che ogni tanto consuma per divagare è meglio lasciarla stare. Sono affari suoi, si dice. E in più è un elettore se non un legislatore. È tra lupi non ci scanna mai. Il sesso a pagamento, non appaga la persona in cerca d’amore, ma paga chi ha in mano il mercato e molto bene. 
Vi consiglio un film “Via da Las Vegas”. Non servono commenti. Alla prossima
La locandina del film

Tristezza

Oggi parliamo della tristezza. Lo facciamo non perché da tempo piove a dirotto, il cielo è grigio (plumbeo per i letterati nostalgici), ma perché si sono concentrate tante cattive idee sulla tristezza, sulla tristezza di cui vi voglio parlare. Certo, oggi mi assumo l’onere di portare su questa pagina web l’elogio della tristezza, l’encomio al sentimento che più di ogni altro ci fa navigare, come naufraghi tra la malinconia e la poesia, tra l’orribile e il sublime. Inizio con un affermazione che ha il sapore dell’assoluto. La tristezza è l’anticamera spoglia dell’introspezione, quella vera, quella che fa ribaltare le pupille e ci fa vedere l’universo che custodiamo dentro, anzi che spesso trascuriamo volutamente per crearci l’angolo dei nascondigli, la casetta sull’albero, la zona invalicabile del nostro pensiero. L’ordine è per la serenità, per la gioia c’è lo scatto e la frenesia, per la tristezza esiste il caos, calmo, soporifero, pieno di particolari.
E se fosse qui la tristezza, ora io sarei felice. Non confondetemi e non confondetevi. La tristezza che miseramente sto tratteggiando con le parole, è una dimensione di elevazione, di trasmigrazione tra il piatto e l’acuto, tra lo scontato e l’inatteso. Detto questo stendo un breve decalogo non per i tristi ma per i cultori della tristezza. Un decalogo che certifica la vera tristezza dalle contraffazioni.
La tristezza va goduta da soli, quindi non va spiegata e condivisa.
La tristezza sopravvive grazie alla pioggia. È una creatura d’acqua. È un fatto naturale che non si può spiegare. Lo si può solo accettare.
La tristezza è un momento di poesia che ci strappa dall’ordinario, ci deve condurre ad uno stato di piacevole rassegnazione ed immobilità, ad un rilassamento dell’anima nell’incantevole.
La tristezza può far piangere ma mai disperare.
La tristezza ti fa un po’ morire ma per poi farti vivere: è una rigenerazione.
La tristezza è l’ancella che accompagna alla liberazione dalle zavorre dell’organizzazione.
La tristezza è un vento che fa freddo, ma ridesta, rilancia, fa venir la pelle d’oca, ma nell’intimo emoziona.
La tristezza non si programma, arriva da sola, come l’ispirazione.
La tristezza è una malattia lenta che non porta alla morte. Conduce ad uno stato di verità e schiettezza con il proprio io. La tristezza fa del male nella misura in cui siamo lontani da noi stessi, dai nostri sogni e dal nostro io, quello vero, quello grande che vuole volare in alto.
La tristezza ha una voce roca, che si distingue, che si fissa nella mente, che fa calare il buio su quello che non conta e ti fa restare in piedi a guardare senza spiegazioni.
A tutti gli amici tristemente felici e fieri dedico, per questa volta, una canzone: una breve ma grande canzoni di Ornella Vanoni. A presto
Ornella Vanoni – Tristezza 
 

L’eclissi del padre

Mi sto chiedendo in questo periodo se è possibile, facendo un po’ di autocritica e senza demagogia, capire se può essere individuato un comune denominatore per giustificare il generale disorientamento di tutti, che spesso trova conferma nei fatti di cronaca gravi, nei fenomeni rampanti e nello sbrodolare dei media. Un grande protagonista assente nelle varie emersioni del disagio, a mio avviso, è il padre. Qualcuno può credere che questa affermazione sia troppo generica, sommaria. Penso proprio di no. Negli ultimi 20 anni abbiamo assistito lentamente ad un fenomeno, inesorabile e continuo. Siamo stati testimoni dell’eclisse del padre come figura sociale. Questa forse è la conseguenza alla strenua opposizione ad un modello sociale statico, obsoleto. Forse perché i padri hanno pensato che occuparsi di altro fosse più redditizio. Non lo so. Comunque la specie dei padri, dei papà è minacciata. Sono pochi gli uomini che hanno chiaro il mestiere del padre. O meglio, visto che nessuno ha la verità in tasca di come si faccia bene il padre, sono pochi quelli che hanno il coraggio di farlo sino in fondo con il rischio di sbagliare. Ma tutti sappiamo che chi fa sbaglia, chi non fa scompare. Posso sembrare apocalittico. Vi descrivo la mia personale visione dell’essere padre nella società ( di oggi e di sempre ). Magari sto delirando. Ma meglio sempre conservare il dubbio – lo dico a voi – che qualcosa di vero possa esserci. Prima di iniziare questo ritratto del padre voglio precisare alcune cose. Mi permetto di fare certe affermazioni perché sono un figlio, e porto in me gli errori e le prodezze educative di mio padre, e perché sono un padre, a sua volta in prima linea tra errore e coraggio nell’interpretare un ruolo spesso stereotipato, con dei registi inascoltati. E poi, per concludere la mia arringa difensiva delle intenzioni, vivo tutti i giorni con persone che subiscono gli effetti di questa eclissi. E spesso un’assenza è più devastante di una cattiva presenza. Iniziamo. Innanzi tutto il padre è la figura dei NO, quello che quando è il momento deve assumersi la responsabilità dei no. Ma dire NO è semplice, resistere con delle argomentazioni consistenti alle domande e alle rivendicazioni che i NO partoriscono, questo distingue il PADRE dal “PAPI”. Facciamo un po’ di autocritica. Quanto ci costa dire no, quanto più semplice è invece assecondare, sorridere, dispensare consenso. I NO fanno crescere, pongono e maturano il senso del limite, fanno toccare con mano che c’è una linea che divide il giusto e il sbagliato. Questa linea viene tracciata nei padri quando loro stessi erano figli. Capite che il processo di estinzione del padre senza un po’ di coraggio diventa irreversibile, perché se a un figlio è mancato un buon padre difficilmente lui stesso lo sarà. Proseguiamo nel nostro ritratto. Il padre è il custode del SILENZIO. Ricordo bene i silenzi del mio, quando facevo qualcosa di storto, o reagivo alla sua figura ingombrante con la rabbia dell’adolescenza. Ricordo bene le sue urla di rimprovero. ma i suoi silenzi nei momenti in cui la mia debolezza poteva venir spazzata via dalla sua furia, i suoi silenzi in quei momenti, i suoi silenzi pieni di amore li ricordo bene. Nessuno fa più silenzio, tutti parlano, straparlano, inveiscono. Nessuno ci dice più con fermezza ”ma sta’ zitto un attimo”. Per molti cultori del dialogo ad ogni costo, questa affermazione potrà sembrare la sintesi di ciò che mai si dovrebbe dire e fare. In una rete di relazioni d’amore un invito al silenzio va sicuramente colto. È un invito a guardarsi dentro, a fare quattro conti con la coscienza. Per questo mi sento di affermare, giocando con le parole, che il padre è il padrino della coscienza. Ora passiamo ad un altro dono essenziale di un padre che quotidianamente tenta d’essere, con ogni mezzo possibile, un educatore concreto e senza finzioni. Sto parlando dei CENTIMETRI. Mi spiego. Spesso, da giovani, ma anche da adulti, veniamo illusi. Sì, proprio così. Anzi, peggio ancora: ci illudiamo a vicenda, “ci fottiamo allegramente” come dice quel poeta di Vasco. Facciamo voli pindarici, perdiamo contatto con la terra, vestiamo qualcosa che non siamo. Come dicono i ragazzi trippiamo ( neologismo derivante da trip – viaggio – e non trippa ndr ). Sono i padri che ci riportano a terra, ci smontano, senza esasperare. Ci infondono invece la prudenza e la forza di lottare per conquistare i centimetri. E la somma dei centimetri , in una vita, ci rende dei vincenti. Chi ha perso nella vita ha sempre aspettato il volo giusto e a dimenticato di lottare per i centimetri. In una squadra, una famiglia, una società, ognuno conquistando i centimetri che deve conquistare, garantisce per sé e per gli altri il bene, l’agio, la vittoria. Si potrebbero dire tante cose, fare innumerevoli osservazioni. Ma il padre porta in sé e rimanda ai figli la misura, anzi la GIUSTA MISURA. Per questo e per il mio status di padre, chiudi qui. Faccio una proposta:perché non organizzare un corso, anzi un training, con un coach per padri. Ma chi sarebbe il maestro? Quali credenziali dovrebbe mostrare per garantirsi competenza e credibilità. 
Mah? Domande che non troveranno risposta. Vi lascio con un discorso memorabile di Al Pacino in un film di qualche anno fa ”Ogni maledetta domenica”. Alla prossima.
Ogni maledetta domenica 
 

Sarai sempre il mio cancro

Da giorni è comparsa a Pellegrina una scritta, un graffito spray su un muro,oramai eroso dal tempo a dall’incuria. Una delle tante scritte, più o meno stupide, che sembrano essere partorite da chi ha bisogno di sputare la propria frustrazione, la paura di crescere o semplicemente la maleducazione. Ma questa scritta no. Per me , umile frequentatore della poesia , il graffito che imbratta questi calcinacci squallidi, è un grido d’amore. Uno dei tanti nella quotidianità della nostra frazione, un tunnel evocativo che ci porta dalla frazione al tutto. Sarai sempre il mio cancro
La scritta sui muri di Pellegrina
Una frase straordinaria nel suo non senso ed anche nella sua forza. Sono d’accordo con i detrattori: potrebbe essere un rigurgito della ragione sotto gli effetti dell’alcol, il grezzo bisogno di attenzione o un mal riuscito esperimento di graffito satirico-oncologico. Ma al di la delle intenzioni, voglio esternare l’emozione che questo epigramma d’amore nella nostra Pellegrina scatena in me, ogni volta, e sono tante, che transito per via Camozzini. Immaginiamo questa scena: una coppia giovane. Lui un ragazzo semplice magari silenzioso, che ha i suoi amici. Magari a volte si sente estraneo nella sua compagnia. Cerca dei segnali che lo possano far andare lontano, con la mente. Ma ogni mattina si sveglia nello stesso letto, lo stesso lavoro. Lo stesso bar e gli stessi amici. La rassegnazione stava minando la sua giovinezza, il suo slancio vitale. Ecco conosce lei. Una ragazza piena di vita. Una tipa capace di riempire solo con la presenza un ambiente, capace di ricondurre alla vita eccitata e frizzante dei vent’anni anche i tempi morti che si accavallano nella Frazione. I due si incontrano da tanto tempo, sono della stessa compagnia, abitano nello stesso paese. Magari hanno frequentato la stessa scuola, il catechismo insieme. Si sono frequentati da sempre, crescendo, da perfetti sconosciuti. Poi la compagnia, lo stare insieme, lo scherzare, il fumare con gli altri, con una birra in mano. La normalità. Una sera, l’allegria etilica, uno sguardo, un pensiero stupendo, non sono più sconosciuti. Cominciano a guardarsi negli occhi. Si frequentano per conoscersi. Si innamorano, lentamente, con prudenza. Ci sono state altre storie, sì, è vero. Ma ora è diverso. Scoprono che quella quotidianità stantia che li ha avvolti per anni, si sta dipanando. Per entrambi il risveglio ha un altro rumore, il lavoro è solo tempo che divide dall’altro. Cominciano ad amarsi. Un amore non come gli altri. Un amore forte, profondo. Uno di quelli che prendono lo stomaco.
Il tempo passa e gonfia i giorno del bello e dell’inutile, si affacciano nella storia dei due pensieri sconosciuti. Sempre lì tra il bar ed altrove. L’amore è un’opera sempre in costruzione. Lo stanno capendo ed hanno paura. La speranza di lei non riesce a convivere con la paura stessa. Neppure lui ce la fa, ma lo sostiene l’incoscienza, il gioire in anticipo come se ci fosse una malattia, che lentamente mangia dentro. E si può solo gioire, vivere con imprudenza, perché non c’è tempo. La sensazione che la paura oramai vincerà è forte e soprattutto Lei non lo sopporta. La paura è di cattiva compagnia. Si lasciano: Lei per paura perché non ha mai imparato a soffrire, lui per salvaguardare il proprio orgoglio senza ragione. Dopo il volo straordinario dei mesi in cui sono stati uno, torna tutto come prima, tranne la malattia di Lui. Infatti una malattia rimane invece i postumi della paura, del chiamare amore senza spiegarsi il perché, la fuga dall’errore, sono come macerie. Vengono sgombrate e poi si ricostruisce, magari una palazzina modesta, senza pretese, ma solida. La malattia ha lasciato il suo vuoto, il suo cancro, la metastasi che prima era dolcezza, respiri vicini, fughe, pomeriggi caldi sul divano. 
Sarai sempre il mio cancro. L’ultimo atto d’amore di chi ora soffre i postumi di una malattia per cui nulla potrà tornare come prima. A questi due amici dedico una canzone. Buona fortuna e alla prossima.
 Ivano Fossati – C’è tempo