Il felice matrimonio della suicida Virginia Woolf

di michelecasella

Nei preparativi per il ritorno alla mia vita e al mio destino, mi sono concesso un’ora di sigaro in spiaggia. Il mare merita di esistere anche solo per questo diletto. Un giovane padre, indaffarato nell’allestimento della postazione da spiaggia della vacanza per lui appena iniziata, si concede, mentre il figlioletto sonnecchia come un bozzolo sul lettino, un po’ di lettura. Non ho visto il titolo ma cerco di scorgerlo, ma a caratteri cubitali vedo l’autrice: Virginia Woolf. Per ironia della sorte, l’ossuto villeggiante ha lo stesso naso aquilino, la frangetta da bravo ragazzo e gli occhi sempre allarmati di un mio carissimo compagno di università, poeta che venerava l’americana Emily Dickinson ed appassionato lettore della Woolf. La britannica me la fece conoscere lui e per lei, anche se una “romanziera”, si bruciò lentamente nelle braci dell’arte feroce, quella che ti consuma. É morto giovane, tutti abbiamo avvallato l’alibi dell’incidente stradale, ma tutti sappiamo, che come la sua amata Virginia, anche lui era divorato dal male di vivere, dalla pena del giorno sempre uguale a se stesso. La sua poesia era seriamente partorita come grido d’aiuto. Ma sperava intimamente di rimanere inascoltato. Lo incontrai quando il suo disfacimento interiore si palesava in modo brutale e l’alcol gli si era fatto famigliare come l’impellenza dei versi. Lo andai ad incontrare con la missione datami di salvarlo. Tra una stilettata al mio moralismo da samaritano ed un ricordo di gioventù, quando si disquisiva se fosse la prosa o la poesia l’arte più grande del secolo breve, mi accorsi ed accettai che il tedio é più perforante della ricerca della felicità. Parlammo dell’amore, dei ripudi subiti che lo straziavano, degli inutili ricoveri, di cura dell’inguaribile.”Non sono pazzo” mi ripeteva “mi affatica il vivere”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Si allontanò dalla famiglia e riparò dalla nonna nei cui occhi troneggiava il presagio. Quando mi accompagnò alla porta mi salutò proponendomi un qualcosa da farsi con la sua orchestra Jazz, ma non l’ho mai sentito suonare il clarinetto. Poi mi disse “se non ci vediamo sarà perchè sarò con Virginia, con due sassi in tasca, nelle acque del fiume Ouse, non lontano da casa”. Fini` con la sua fiat tipo in un fiume dal nome meno letterario, alla fine dell’ennesima serata in compagnia della Solitudine. Ora lo rivedo reincarnato a pochi passi da me, concentrato con lo sguardo perso nelle pagine di Orlando spero, il suo libro preferito, una poesia in prosa diceva lui, con il suo bambino accovacciato in un sonno sereno e sua moglie, che certamente lo ama, nell’appartamento a sistemarsi i bagagli. Oppure altrove, nei pressi della Monk’s House, nel Sussex con la sua musa, quella donna lunga e dal naso vittoriano, a dirgli «Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.»