michele casella

Diario minimo

La rete e i grilli

Sulla mia poltrona, ora che tutte le piccole donne di casa dormono, realizzo che non ho la tv da tempo. Una scelta inutile di raffinata distinzione, secondo molti, noia della banalità per me. Godo alcune ore di silenzio e sento i grilli cantare in giardino, il russare di Rachele e il rumore dei trasformatori elettrici della ferrovia vicina. Tutto acquisisce fascino se lo si avvolge di silenzio. Oggi è arrivato però il momento della seconda partenza. Benedetta, dopo la prima, ha il cellulare. Dopo un lungo rimando al limite dell’incoerenza più becera. Con esso le nostre raccomandazioni, gli ammonimenti sulla rete che non conosce oblio, pietà e discrezione. Le nostre ansietà come memento mori per l’avvio del suo grand tour nel mondo della finzione.
“Fai attenzione! Facebook è pieno di cretini! Si vestono di coraggio ed interesse perché soli e senza termini di umanità, senza la minima possibilità di toccare nello sguardo prossimo la propria imbecillità”.
Parole così lontane …. L’educazione sentimentale ha deviato il percorso e corre come la luce. E le nostre raccomandazioni sembrano il fischio di un treno a vapore che incrocia la modernità sfrecciante ed affusolata. Nei suoi occhi c’è la voglia della scoperta, dell’autonomia e del pericolo. In lei esplode la fame per il mondo e i suoi trucchi. L’indigestione le verrà, senza complicazioni gravi spero. Vigileremo dal faro, inutilmente ed abbandonati alla fortuna e alla sua intercessione, l’unica che ci può salvare. Buon viaggio bambina mia, ora che dormi e mi hai consegnato il cellulare, ascolto i grilli fiacchi di rigore ed aspetto il sonno e la sua rete magica.

Michelangelo Pistoletto. Nuovo titolo dell’opera : La gioventù e l’incontro con la Rete. Libera reinterpretazione dello scrivente….

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Il felice matrimonio della suicida Virginia Woolf

Nei preparativi per il ritorno alla mia vita e al mio destino, mi sono concesso un’ora di sigaro in spiaggia. Il mare merita di esistere anche solo per questo diletto. Un giovane padre, indaffarato nell’allestimento della postazione da spiaggia della vacanza per lui appena iniziata, si concede, mentre il figlioletto sonnecchia come un bozzolo sul lettino, un po’ di lettura. Non ho visto il titolo ma cerco di scorgerlo, ma a caratteri cubitali vedo l’autrice: Virginia Woolf. Per ironia della sorte, l’ossuto villeggiante ha lo stesso naso aquilino, la frangetta da bravo ragazzo e gli occhi sempre allarmati di un mio carissimo compagno di università, poeta che venerava l’americana Emily Dickinson ed appassionato lettore della Woolf. La britannica me la fece conoscere lui e per lei, anche se una “romanziera”, si bruciò lentamente nelle braci dell’arte feroce, quella che ti consuma. É morto giovane, tutti abbiamo avvallato l’alibi dell’incidente stradale, ma tutti sappiamo, che come la sua amata Virginia, anche lui era divorato dal male di vivere, dalla pena del giorno sempre uguale a se stesso. La sua poesia era seriamente partorita come grido d’aiuto. Ma sperava intimamente di rimanere inascoltato. Lo incontrai quando il suo disfacimento interiore si palesava in modo brutale e l’alcol gli si era fatto famigliare come l’impellenza dei versi. Lo andai ad incontrare con la missione datami di salvarlo. Tra una stilettata al mio moralismo da samaritano ed un ricordo di gioventù, quando si disquisiva se fosse la prosa o la poesia l’arte più grande del secolo breve, mi accorsi ed accettai che il tedio é più perforante della ricerca della felicità. Parlammo dell’amore, dei ripudi subiti che lo straziavano, degli inutili ricoveri, di cura dell’inguaribile.”Non sono pazzo” mi ripeteva “mi affatica il vivere”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Si allontanò dalla famiglia e riparò dalla nonna nei cui occhi troneggiava il presagio. Quando mi accompagnò alla porta mi salutò proponendomi un qualcosa da farsi con la sua orchestra Jazz, ma non l’ho mai sentito suonare il clarinetto. Poi mi disse “se non ci vediamo sarà perchè sarò con Virginia, con due sassi in tasca, nelle acque del fiume Ouse, non lontano da casa”. Fini` con la sua fiat tipo in un fiume dal nome meno letterario, alla fine dell’ennesima serata in compagnia della Solitudine. Ora lo rivedo reincarnato a pochi passi da me, concentrato con lo sguardo perso nelle pagine di Orlando spero, il suo libro preferito, una poesia in prosa diceva lui, con il suo bambino accovacciato in un sonno sereno e sua moglie, che certamente lo ama, nell’appartamento a sistemarsi i bagagli. Oppure altrove, nei pressi della Monk’s House, nel Sussex con la sua musa, quella donna lunga e dal naso vittoriano, a dirgli «Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.»

Finale amarcord

Come tutto é finita anche questa vacanza. Ho gustato al dolcezza della mia famiglia e il profumo che porta di begonie e spensieratezza. Ora non mi manca nulla. I bambini giocosi che scavano crateri senza un perché, la grazia popolare dei costumi improbabili e dei chili soppesati troppo tardi, fanno da corollario alla mia voglia di tornare a casa. Le abbronzature con ansietà cercate in una stagione che profuma di autunno non sono altro che un tonfo di solitudine, dolcissima e necessaria. Forse mi mancherà solo la nostalgia della quotidianità che ora mi riempie i polmoni, con la salsedine sparsa da questo mare capriccioso, che culla con noncuranza i bagnanti. Se ci saremo, alla prossima, a Dio piacendo….

Chi dici che io sia?

Oggi, in questa domenica feriale che sembra un martedì, spaparanzato sulla sdraio come un cetaceo collassato, ho ripensato a più riprese alla domanda che nel vangelo Gesù pone agli apostoli. “Voi chi dite che io sia?”. Un sacerdote dimesso ma molto umano, nell’omelia di ieri sera, rivolgeva lo stesso interrogativo ai pochi presenti alla funzione presso la Chiesa del Rosario a Comacchio. Edificio ben ideato, rovinato da quei restauri in cui si pensa al marmo come alla panacea di tutto. Il mio sguardo era rapito da un crocifisso ligneo molto intenso e sofferente, ispirato, a mio modesto parere, a quel ferrarese precursore dell’espressionismo e dell’iconografia del sofferente che fu Cosme’ Tura. Il volto devastato e magro del Cristo in Croce, di un legno bruno che ancor più incupiva, e la domanda di Gesù, mi hanno fatto compagnia sino all’ora del vespro in spiaggia. Ma il mio arrovellarmi nasceva non tanto dalle risposte dottrinali e formalmente corrette che mi si paravano dinanzi ordinate, ma dalla domanda che dal profondo mi esplodeva nei confronti del figlio di Dio.”Chi sono io per te?”. Le riposte che ho suggerito al mio silenzioso Dio non mi hanno placato. Sono una creatura, il tuo figlio prediletto, la pecorella smarrita, un discepolo, un tuo testimone, un operaio della carità? Se non tu, qualcuno, che sia intimo con te, il principale, mi dia un’imbeccata. Le buone risposte iniziano a non bastarmi più. Chiudo il mio soliloquio con un quadro esemplare a cui spesso ho cambiato il copione. Parlo della Vocazione di San Matteo di Caravaggio, se non il pittore, l’uomo tardo rinascimentale che preferisco, per la mia immotivata simpatia per i dannati. Nella scena, tagliata dalla luce, in una locanda un po’ squallida, al Nazareno farei dire proprio questa frase “tu Matteo, chi dici che io sia?”. E Matteo, uomo pragmatico e moderno, quasi meravigliato ma sempre con la misura del disilluso, a rispondere: “Tu lo chiedi a me? Dovresti dirmi tu chi sono io!”. Buon Dio, non farmi le domande giuste, oggi prova se puoi, a darmi delle risposte sensate. Che siano arbitrarie, imperative, fulgide come il dito puntato del Gesù dipinto dal Merisi. Così sia. Amen.

Matrimoniale al tramonto

Dal mio terrazzino, vista la giornata piovigginosa, ho iniziato ad osservare gli atteggiamenti curiosi della fauna piccolo-borghese in vacanza. Un po’ di ostentazione, ordine da massaia ben porzionato e tanta bella roba. Già da ieri la mia attenzione però é stata catturata da una coppia di anziani che vivono dirimpetto la nostra villetta a schiera full optional per le ferie. Finché raccoglievo gli asciugamani i due procedevano alla passata del pomodoro da salsa. Lui con la lentezza con cui si sono spostati i continenti, girava la manopola di un passaverdure anteguerra ( primo conflitto mondiale si intende )…e lei, amorevolmente lo insultava con la costanza che solo le mogli hanno. Oggi, finché gustavo il mio mezzosigaro del dopo pranzo, li osservavo ancora sparecchiare, sotto una verandina compunta, dopo un frugale pranzo a base si pasta con la salsa di pomodoro, e bisticciare di tutto e niente, per sentirsi presenti, vivi per l’altro sino alla fine. Con loro mi sono inoltrato nel segreto dell’amore durevole, magari non da romanzo, non da film, ma robusto come i prodotti di fattura grezza, fatti per resistere ed invecchiare solidamente. Sono affascinato da questa prova eterna di resistenza. Tutto sarà cambiato per loro. La passione sarà maturata in un sentirsi posseduti da un unico destino. I sogni mancati si sono travestiti certamente da ricordi imbrattati di fantasia. Rimane la presenza lenta, costante, imprecisata nelle intenzioni, di chi é rimasto li` una vita, vicino. In serata erano seduti fuori, silenziosi, vestiti di novembre, con gli occhi fissi di colpa e di pantano. Appena li ho incrociati, ho rivisto i coniugi Manet, i genitori del famoso Édouard, con i loro sguardi assorti in un punto indefinito del passato, della loro vita. Non ho mai voluto così bene a due sconosciuti.

In riva al mare

Bonington Richard Parkes, Sull’Adriatico.

 

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Il grieco cristallino

Pettina di fino il mare.

Lo arruffa di schiuma

E di risentimento.

Il vento mi riga la faccia

Di presagi per l’avvenire.

Gabbiani annoiati, sentinelle,

presidiano gli scogli,

mentre sul bagnasciuga

si consumano

le gesta erotiche dei pavoni,

cortigiani della forma.

I pensieri,

come i giochi dei bimbi,

non lasciano traccia alcuna

né sulla sabbia, né oltre la duna.

Si riversano tutti

Nel catino grigio,

piatto sino a Levante,

bagnato dal cielo celeste.

Con loro affondano

I propositi, le attese

E il mio distinguermi.

Naufrago in villeggiatura,

mi appresto a far compagnia

a Giona e al Leviatano.

Mi suona lontano,

come campana della memoria,

solo il rumoreggiare

delle onde e del loro destino.

Lo sguardo delle donne

Le mie. Non per una rivendicazione del senso del possesso post alessandrino. Ma ognuno ha le sue. Una ti ha fatto nascere. Altre ti hanno fatto uomo, alcune padre, le più importanti felice. Purtroppo delle donne osserviamo molto, tra il lecito e l’animale, raramente, con purezza, lo sguardo. Per osservare non intendo tanto l’azione, quanto il frutto, l’effetto, quel senso di abbandono che si ha davanti ad una meraviglia mai descritta né dalla scienza né dalla poesia. Nel mio caso spesso si tratta di sbigottimento. Perché le donne della mia vita sono molte ed hanno occhi immensi. M.C. ha negli occhi l’abilità di dare risposte, la forza di chi sa quel che vuole, anche se non del tutto. La discrezione di chi osserva per capire, la solidità di chi capisce presto. B. nei suoi ha un lago di malinconia. L’intensità che non hanno le mezze stagioni, la turbolenza di un temporale improvviso e rabbioso, il calore del sole che irrompe, che cuoce ed asciuga. M. negli occhi porta la forza della natura. Nulla le resiste. Tutto si piega al suo volere e al suo giocare. Riesce a contenere nelle sue palpebre il ciclo delle stagioni e il segreto dell’alchimia. R. ha due pozzi di grigio, immensi come il cielo quando fa scivolare la notte. Così grandi che il sole si perde e con lui tutto il mondo, che si addormenta per nostalgia. Poi c’è D., dalle luci marroni come la terra, feconda, calda ed accogliente. Dai suoi occhi tutto cresce, si riordina e tutto ritorna. Gli sguardi delle mie donne sono ovunque e mi fanno compagnia anche quando sono lontano, quasi perso. Li ritrovo in ogni dove e mi riconducono a casa. Poi c’è lo sguardo di mia madre, che a volte dimentico. Confuso e lucido, offuscato dagli anni e dai sogni in grigio, raccolti in cornici polverose. Sbiaditi dal tempo non dalla rassegnazione condita dal tramonto. Specchi in cui non si riflette il vero, ma la verità. A lei dedico un quadro del più grande ritrattista di sguardi, Gustav Klimt, in mostra a Milano sino a qualche mese fa. Gli occhi sono lo specchio dell’anima. Le mie donne, con i loro, sono l’anima del mondo mio.

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Presente indicativo

Un amico che bonariamente mi legge ogni tanto in questo mio diario, con pungente maestria mi ha fatto notare che quando scrivo uso sempre tempi del modo indicativo. Per quel che esprimo il mio seguace correggitore ritiene più consono il condizionale come modo verbale. Anche la struttura delle frasi dovrebbe essere meno categorica! Devo dire che l’osservazione mi ha molto incuriosito. Nella nota si asserisce pure che visti i temi che coltivo nel mio orto di pensieri, in particolare quando tratteggio tutti i figli illegittimi del Dubbio e del registro modesto con cui li affronto, e del mio amore per l’arte che non è mai certezza ma sovente trattasi di interpretazione, di via solitaria, i miei verbi o l’intera costruzione della frase dovrebbe essere meno netta, più indefinita. Ringrazio il caro seguace per questa nota stilistica. Ne faccio tesoro. Nel pomeriggio, tra la lavatrice rottasi improvvisamente, una tragedia in vacanza, visita all’abbazia di Pomposa, con custode zelante che invitava ad essere celeri e poi cena nei pressi di una palude con la compagnia di sanguigne zanzare che, devo dire, hanno pasteggiato lautamente, mi sono posto l’interrogativo se ci fosse un po’ di ragione nell’osservazione. Anzi, mi sono chiesto perché il mio parlare dell’etereo usasse modi e parole così terrene. Perché? Non lo so. Se posso azzardare una giustificazione ad una non colpa, mi difendo affermando che il condizionale è un modo senza responsabilità. L’indicativo ti impone sempre una direzione, la scelta di un orizzonte. Poi, per concludere, descrivere la commedia della vita con la libertà degli stili, dalla tragedia alla satira, dal pettegolezzo all’endecasillabo, dall’oscenità alla moralità della retorica… questa gamma di ingredienti da un senso di libertà grandissimo. Ed io scrivo per liberarmi, per evacuare la vita che quotidianamente digerisco. Sono vorace, onnivoro, ma ho imparato ad apprezzare i sapori e le contrapposizioni, le sfumature che la cucina, la creatività in genere sanno impiattare. Nulla di calcolato, lo dico solo per tranquillizzarmi, ma solo della sana e giocosa cucina dei sentimenti, con verbi, parole ed immagini usate con l’impudenza di chi poi consuma il cibo che cuoce. Per concludere il quadro di un autore svedese, Carl Larsson “Martina” alla. Galleria Internazionale d’arte moderna Ca’ Pesaro ed esposta in mostra a Rovigo, “L’Ossessione Nordica”. Mi piace l’atmosfera serena della paciosa ragazza, dilettante e saggia, formosa ed innocente che porta la colazione a chiunque sosti davanti al quadro. Siamo quel che mangiamo e cuciniamo. Buon appetito.

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Horror Vacui

Horror vacui, la parola e i suoi eccessi.

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A volte non si ha nulla da dire. Come ora. Tutti, per tutta una serie di coincidenze terrene e congiunzioni astrali, a dirmi ” ma dì qualcosa…!”. A volte invece è sano tacere, meglio, appurare che non è il caso di dire nulla. Il silenzio o la facezia del più e del meno, della parola apparentemente inopportuna ma stemperante, che in realtà fa da parenchima, anzi, da maionese di quell’enorme insalata russa che sono le relazioni, è la via della saggezza troppo sottovalutata. L’aver nulla da dire è un atto di fiducia verso “ignoti”, rispetto il mondo del logos, con le sue strategie e le sue performance. Largo al pensiero altrui, alla disponibilità calmierata, al buon gusto più che al buon senso. E se si inciampa in qualche madornale boiata, bene… Il refrigerio che dona l’ombra sottoboschiva del silenzio sarà ancora più tonificante. È così, perché nessuno lo dirà mai, ma il non detto è meglio di tanti detti. Il non avere soluzioni a portata di mano, ma un salubre ed inutile “nulla da dire” è un’occasione data alla creatività e all’inatteso. Siamo sempre presi dalle frasi ad effetto, dalla parola che cambia la vita propria e di chi sta intorno. Queste sono cose da sceneggiatori o da saggi orientali scampati allo sterminio cinese o al progresso. Il flusso del tempo è fatto da silenzi oceanici, da non parole, da assoluti interiori che lasciano spazio all’eco. Oggi sono così, galleggiante nel silenzio, il pensiero spoglio come una facciata romanico-lombarda. Oggi non sono gotico, oggi ho tempo, oggi voglio stare spento.

Il non detto, Yves Klein, il blu assoluto.

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Mezze maniche alla Camus

In ferie penso ad Albert Camus e all’uomo mediterraneo. Ne parlo a cena a tavola con le mie figlie che mi osservano come se stessi vaneggiando. Racconto loro che ieri sera girando tra le bancherelle dei libri usati, in un angolo, reietto, ho visto un libro suo, “Lo straniero”. Non scatta la curiosità e mi involvo. Parlare di Camus con le figlie adolescenti è masochismo, lo so. Non l’ho mai apprezzato come scrittore perché non ho mai avuto il coraggio di leggerlo
sino in fondo, fino al contatto vero. Qualche brano all’università, q. b. Vedendolo ieri sera, solo, ai margini lontano dai bestsellers, quasi appestato ( altro libro dell’algerino francese, che ironia…, era intitolato la “Peste” ), mi viene in mente l’atmosfera che mi creava dentro, quando giovane ribelle dilettante lo rifiutai per il suo anticomunismo. Lo incontrai già per abbandonarlo. I dannati, la bellezza, l’utopia erano i suoi amori; da ragazzi non si sa bene cosa cercare, si hanno solo mondi da demolire. Ricordando il libro, ricordandolo come uomo, mi torna l’entusiasmo della rivoluzione, che ora invece si stempera non nella lotta per un mondo migliore ma nella certezza che il mondo può essere migliorato. Ma tra tutto, oggi, nella mia siesta pomeridiana, ho pensato a Camus non come l’uomo del nobel arrivato troppo presto, delle prese di distanza e dell’isolamento, l’intellettuale che preferiva il calcio al teatro… Oggi, nel dopopranzo ho pensato a Camus come l’uomo del mediterraneo, anzi, l’uomo meridiano. L’uomo del tempo del meriggio, senza soluzioni e senza tracce, sonnolento ma pronto all’incontro. L’uomo del mare, totale. Non l’essere dell’efficienza, ma l’insieme delle cose che lo costituiscono da sempre: Dell’olio, della siesta, del caffè, dei carboidrati, del pomodoro, del pesce e del salame piccante. L’uomo giusto che sa che si può anche sbagliare, l’uomo in rivolta che mette in discussione se stesso. Il sonno pomeridiano è parte della società giusta perché l’umanità è finita, fragile ma può sognare alla grande. Le mezze maniche trafilate al bronzo, con zucchine e con un filo di extravergine e parmigiano, seguite da cipolla di Tropea stemperata col balsamico e pomodoro cuor di bue, le dedico a Camus, lo scrittore per onore, solo e dissidente per onere, ma uomo del Mediterraneo, del mare, della ferialità. Alla salute Camus, prosit…..

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