michele casella

Diario minimo

Tag: #poesia

Una frase vera

<< A volte quando inizio una nuova storia e non riesco ad andare avanti, mi siedo di fronte al camino e inizio a schiacciare la buccia di alcune piccole arance verso gli angoli delle fiamme e osservo gli zampilli blu che si creano. Mi alzo e guardo fuori verso i tetti di Parigi e penso, “Non preoccuparti. Hai sempre scritto in passato e scriverai ora. Tutto ciò che devi fare è scrivere una sola frase vera. Scrivi la frase più vera che conosci.” Così finalmente scrivo una frase vera, e parto da là. Era facile perché c’era sempre una frase vera che conoscevo o che avevo sentito dire da qualcuno. Quando mi accorgevo che stavo scrivendo in maniera elaborata, o come qualcuno che introduce un tema o presenta qualcosa, mi fermavo e tagliavo la tiritera, buttavo via e ricominciavo dalla prima vera semplice frase dichiarativa che avevo scritto. >>

Questo consiglio viene da Ernest Hemingway, uno scrittore. Da tempo sono preso dalla febbrile necessità di scrivere. Prima poesie, poi un romanzo, poi un diario, alla fine delle lettere, un blog… qualsiasi cosa, purché nasca dalla mia testa ed io stesso ne sia l’ostetrico.

Ma solo oggi, tra il mare di finzioni che partorisco, nelle descrizioni verosimili o drammatiche che faccio di ciò che vivo, mi pongo questà domanda:”ma le mie, sono frasi vere?”. Uno se lo deve chiedere, altrimenti c’è il rischio di imbrattare carta e perdere tempo, da dedicare a cose importanti, come l’amore, il calcio o la lettura. Mi darò la risposta quando la pioggia scemerà un poco e non potrò più mentire  a nessuno.

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Il felice matrimonio della suicida Virginia Woolf

Nei preparativi per il ritorno alla mia vita e al mio destino, mi sono concesso un’ora di sigaro in spiaggia. Il mare merita di esistere anche solo per questo diletto. Un giovane padre, indaffarato nell’allestimento della postazione da spiaggia della vacanza per lui appena iniziata, si concede, mentre il figlioletto sonnecchia come un bozzolo sul lettino, un po’ di lettura. Non ho visto il titolo ma cerco di scorgerlo, ma a caratteri cubitali vedo l’autrice: Virginia Woolf. Per ironia della sorte, l’ossuto villeggiante ha lo stesso naso aquilino, la frangetta da bravo ragazzo e gli occhi sempre allarmati di un mio carissimo compagno di università, poeta che venerava l’americana Emily Dickinson ed appassionato lettore della Woolf. La britannica me la fece conoscere lui e per lei, anche se una “romanziera”, si bruciò lentamente nelle braci dell’arte feroce, quella che ti consuma. É morto giovane, tutti abbiamo avvallato l’alibi dell’incidente stradale, ma tutti sappiamo, che come la sua amata Virginia, anche lui era divorato dal male di vivere, dalla pena del giorno sempre uguale a se stesso. La sua poesia era seriamente partorita come grido d’aiuto. Ma sperava intimamente di rimanere inascoltato. Lo incontrai quando il suo disfacimento interiore si palesava in modo brutale e l’alcol gli si era fatto famigliare come l’impellenza dei versi. Lo andai ad incontrare con la missione datami di salvarlo. Tra una stilettata al mio moralismo da samaritano ed un ricordo di gioventù, quando si disquisiva se fosse la prosa o la poesia l’arte più grande del secolo breve, mi accorsi ed accettai che il tedio é più perforante della ricerca della felicità. Parlammo dell’amore, dei ripudi subiti che lo straziavano, degli inutili ricoveri, di cura dell’inguaribile.”Non sono pazzo” mi ripeteva “mi affatica il vivere”. Fu l’ultima volta che lo vidi. Si allontanò dalla famiglia e riparò dalla nonna nei cui occhi troneggiava il presagio. Quando mi accompagnò alla porta mi salutò proponendomi un qualcosa da farsi con la sua orchestra Jazz, ma non l’ho mai sentito suonare il clarinetto. Poi mi disse “se non ci vediamo sarà perchè sarò con Virginia, con due sassi in tasca, nelle acque del fiume Ouse, non lontano da casa”. Fini` con la sua fiat tipo in un fiume dal nome meno letterario, alla fine dell’ennesima serata in compagnia della Solitudine. Ora lo rivedo reincarnato a pochi passi da me, concentrato con lo sguardo perso nelle pagine di Orlando spero, il suo libro preferito, una poesia in prosa diceva lui, con il suo bambino accovacciato in un sonno sereno e sua moglie, che certamente lo ama, nell’appartamento a sistemarsi i bagagli. Oppure altrove, nei pressi della Monk’s House, nel Sussex con la sua musa, quella donna lunga e dal naso vittoriano, a dirgli «Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi.»

In riva al mare

Bonington Richard Parkes, Sull’Adriatico.

 

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Il grieco cristallino

Pettina di fino il mare.

Lo arruffa di schiuma

E di risentimento.

Il vento mi riga la faccia

Di presagi per l’avvenire.

Gabbiani annoiati, sentinelle,

presidiano gli scogli,

mentre sul bagnasciuga

si consumano

le gesta erotiche dei pavoni,

cortigiani della forma.

I pensieri,

come i giochi dei bimbi,

non lasciano traccia alcuna

né sulla sabbia, né oltre la duna.

Si riversano tutti

Nel catino grigio,

piatto sino a Levante,

bagnato dal cielo celeste.

Con loro affondano

I propositi, le attese

E il mio distinguermi.

Naufrago in villeggiatura,

mi appresto a far compagnia

a Giona e al Leviatano.

Mi suona lontano,

come campana della memoria,

solo il rumoreggiare

delle onde e del loro destino.

Volpe e il suo segreto.

Oggi muore Maria Luisa Spaziani. Poetessa e compagna intellettuale di Montale. Per chi ha studiato, per oneri universitari, il poeta di Ossi di Seppia, sicuramente sarà precipitato nel gossip letterario-fantaerotico dei rapporti di questo solenne poeta con le donne. Clizia, Mosca e Volpe, questa la sequenza. Ho sempre tifato per la Tanzi, per Mosca, sicuramente la più ordinaria, la moglie discreta, che ispirò quella poesia magnifica che è “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale”, la n.5 di Xenia II. La giovane poetessa, l’amica divertente e divertita dal poeta sommo che “ballava per lei”, mi ha sempre urtato. Forse per l’ambiguità di quel rapporto, di quella relazione sublimatasi nei versi, magnifici. Non ho mai creduto nell’amicizia tra uomo e donna. Nell’amicizia tra la Spaziani e Montale oggi sì, oggi ci credo, oggi che è morta sobriamente e che ha portato con sé il suo segreto, l’eredità di una stagione letteraria straordinaria, in cui i vati seppero solo dirci “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Rileggiando qualche anno fa una rivista di poesia moderna, lontanissima per spessore da Solaria e da Lacerba , ho incontrato Anniversario di Montale. Libero dalle ansie scolastiche, l’ho letta come un commiato di un uomo sazio di vita, spronato ancora alla vita dalla concretezza e dalla natura di Volpe. Volpe per quello straordinario amico, Maria Luisa per tutti gli altri. Me la dedico. Orevuar, professoressa.

 

Dal tempo della tua nascita

sono in ginocchio, mia volpe.

È da quel giorno che sento

vinto il male, espiate le mie colpe.

 

Arse a lungo una vampa; sul tetto,

sul mio, vidi l’orrore traboccare.

Giovane stelo tu crescevi; e io al rezzo

delle tregue spiavo il tuo piumare.

 

Resto in ginocchio: il dono che sognavo

non per me ma per tutti

appartiene a me solo, Dio diviso

dagli uomini, dal sangue raggrumato

sui rami alti, sui frutti.