23 febbraio 2023

di michelecasella

Oggi ha scuola ho parlato dei “classici”. Andava fatta un’introduzione alle “Notti Bianche” di Fëdor Dostoevskij. Certi incontri hanno qualcosa di religioso. Siamo partiti da Walt Whitman per arrivare a Zerocalcare per poi tornare indietro a Platone e “l’immagine della Caverna” (così faccio contenta la mia professoressa di filosofia antica). Poi Lindo Ferretti con “Amandoti” sino ai Måneskin insieme ad Agnelli. Un tour del classico inteso come esperienza artistica che torna, inesorabile, perché costitutiva della nostra identità, del nostro DNA come uomini e come creatura alla spasmodica ricerca di un significato oltre il visibile.

Pie Rows (1961), Wayne Thiebaud

Il visibile, la sua essenza, la realtà… La realtà e quello che le sta dietro è un assillo. Le parole, la storia con il suo intreccio, sono per me un pungolo costante ogni volta che sento e vedo qualcosa. “Ma è così?”, come il tintinnio di un orologio antico mi ritorna. Quando la domanda mi si presenta, di scatto mi si accavallano altre questioni, un’onda di dubbi vivi e vegeti, di graffi, che invocano ascolto: “Sono uno o sono una legione?”, e poi con inesorabile ferocia, “cos’è il vero, dove finisco io ed inizia l’altro?”.

River Pool (1997), Wayne Thiebaud Foundation

Domande, voci, richiami, l’eco lontana di presenza che mi chiama ma non mi trattiene. Quando la schiuma viscida di questa onda sbatte nella parete della mia testa, lascia sedimenti cristallini, rosei, “schiumosi”, anzi, della stessa consistenza della panna smontata.

Mi guardo attorno per capire, per fuggire da certi accostamenti assurdi, gettandomi in un caleidoscopio d’intenzioni: “vado, faccio, ora parlo, ora ascolto”, tutto per interrompere la mareggiata nella testa. Un gracchiare inutile, un penare che alla fine mi lascia così sterile.

Questi pensieri mi ondeggiano in testa mentre spiego ai miei ragazzi l’essenza di un classico.

Vado a dormire. Il sonno porterà bonaccia.