michele casella

Diario minimo

Categoria: #racconti

1-Casorati

Un anno impegnativo. Corse, intrecci, strategie con il rischio di perdersi. Ho finito un’altra esperienza. La metto nella bisaccia, per il futuro. Amici veri scoperti, vecchie chimere svelate. Giano ho imparato a riconoscerlo. La delusione è l’anticamera della rinascita. Quella grande, importante, definitiva, che si ripete ogni giorno. Voglio continuare a camminare mentre il sole […]

Carnevale Alieno

Carnevale di mezza quaresima. Gli ortodossi direbbero che si tratta di un frutto fuori stagione. Si tratta invece di una grande occasione. Gli eventi inattesi sono premesse  minime per le rivoluzioni cosmiche. Dico questo perché oggi, impalato a salutare le mie bambine sul carro dal marciapiede affollato di bizzarria, dopo aver deglutito la mia dose giornaliera di coriandoli ( avrete certo notato la facilità con cui si infilano ovunque? È incredibile! ), ho fatto un viaggio della mente incredibile. Un trip direbbero alcuni dei miei famigliari più sgamati. Nel bel mezzo della bolgia, mi sono sentito magnificamente solo, e quasi d’incanto si è aperta una voragine spazio temporale tra me è il Tutto. Non ho esagerato con gli alcolici, pur avendone licenza. Ma nel bel mezzo del carosello, con la banda musicale vestita da messicani, magiorette attempate che vagavano un po’ confuse davanti a carri di un kitch travolgente, con musiche latino-americane amplificate a tal punto da sentirsi sino su Venere, bambini festanti e piangenti, machi nostrani e starlette sommerse di schiuma, ho avuto l’illuminazione. Non siamo soli nell’universo. L’ho capito perché lo spazio astrale che si è creato ha fatto da eco ad una voce lontana, anni luce, forse su un altro pianeta. Non ho capito letteralmente, ma dal tono divertito sicuramente chiamava altri a venir a vedere lo spettacolo pop che si stava consumando in un minuscolo paese della pianura padana. Contatto possibile grazie ad un imbecille, il sottoscritto, che in mezzo a quel casino pensava all’universo. Non sto scherzando: ho avuto la percezione certa che si fosse stabilito tale canale. Ho sentito lo sguardo divertito di un extraterrestre, che fissava incuriosito la carovana festosa, gli avvinazzati improvvisare simpatia e strabordi di verità, gli adolescenti molestare altri adolescenti ( di sesso opposto ) nel gioco eterno del corteggiamento travestito da scherzo puerile. E i suoi occhi ( sempre che l’entità aliena li abbia ) erano languidi di tenerezza e voglia di capire, come quelli di un bambino davanti ad una coppia di pesciolini rossi che copulano ( sempre che lo facciano ) nella limpida boccia d’acqua. Quel guardare mi ha attraversato e nel farlo ho sentito che non sono solo, anzi in ottima compagnia. Stupendo! Pensiamoci bene. Possibile che ci sia solo questo, piccole gioie, sofferenze e fatiche, eroismo e banalità? Come possiamo credere che le cose che si riproducono con diverse sfumature in spazi diversi del pianeta, che alla fine si rifanno sempre all’uomo e ai suoi eccessi o recessi, siano uniche. La creatura che spesso rappresentiamo in modo imbarazzante ha prevalso nella gerarchia naturale, ma siamo le uniche dotate di pensiero ed umorismo nello spazio interstellare? Chi ha un minimo di ragione non può contraddirmi. Immagino una carovana di carri allegorici spaziali, ballerine dalle forme inconsuete ballare su un altro pianeta, scimmiottando la tenerezza prodotta da quegli individui pallidi che abitano il pianeta Terra. Lo scrivo anche se credo che alcuni inizieranno a dubitare della mia stabilità mentale. Ma in fondo siamo carnevale. Ragionevoli sbavature sono concesse.

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Nonsense

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Non dispiace l’idea di scrivere su un vecchio quadernino il post che poi pubblicherò sul blog. Sembra quasi un nonsense. Di certo è un’involuzione tecnologica. Anzi, è un dono della provvidenza, della sorte o del genio della lampada, questa possibilità di rivivere, inaspettatamente, sensazioni fisiche sepolte da anni in un cassetto dimenticato della memoria e della pelle. Per tutta una serie di circostanze, in questi giorni, mi sono più volte ritrovato testarmi con la scrittura a penna, su carta, solcando le righe di un vecchio residuo delle scuole elementari dello scorso secolo ( temo che l’oggetto fosse addirittura mio ). È stata una bella sensazione.
La carta porosa che accarezza le dita mentre trascino la biro, la penna che affatica le dita, quasi inesperte. La paginetta giallognola che scivola con tutto il quaderno un po’ ovunque.
Anni ed anni che non mi cimentavo con questa “gentil tenzone” creativa. A contorno di tutto, la bellezza dei segni infissi dalle scritture precedenti, portate vie con le pagine strappate. Un dedalo di ragnatele da decifrare, da fissare come segni arcani che ci richiamano ad altre parole, ad altri lidi, ad altre vite. Un artificio della Memoria, del tempo, dei suoi ricorsi e delle occasioni sparpagliate.

Il tempo distillato della Memoria
mi attraversa dentro,
scompiglia e scopre come nella stanza il vento.
Certo non sono, ma conservo
tra il disordine organizzato
le iniziazioni, la fragranza dei gesti
il gusto per la lontananza
e le paure di una sentinella
nell’attesa dei Tartari.
I vuoti sembrano gli stessi,
le Ore a caccia d’amore
li hanno tutti ingialliti.
I volti sono avvolti dalla nebbia,
di loro resta forse il refrigerio
e ciò che di loro ho dimenticato
per inciso o per iscritto,
sulle cortecce, nelle tasche
e sulle rive dell’Ade.
La processione di questi,
con l’ordine di un’evacuazione,
interminabile batte le vie
del Ritorno e degli Addii,
tra dogmi, allusioni e costruzioni mancate.
Osservo tutto nel silenzio del buio,
da dietro, in disparte,
come al funerale di uno sconosciuto.

Io non sono normale

Un amico curioso mi telefona. Tra le tante cose dette ad un certo punto sbotta “ho letto il tuo blog, sei troppo poetico, la poesia è morta, dovresti essere più normale”. Mentre ascolto la sentenza, devo avere lo sguardo di uno a cui hanno versato il contenuto di un pitale dalla finestra sulla testa. Lo capisco da come mi guarda mia figlia in un attimo di riemersione da Wathsapp e dalle sue spuntate blu. Mi dico: “Questo mi chiama, per invischiarmi nel nulla e vuol fare il copywriter con me?”. Al cellulare, facendo attenzione a non inciampare nel mio scroto, mi prendo dieci secondi di silenzio. Me lo devo. Penso alla normalità. Cosa sia poi questo concetto che è alto per chi si sente super ed è basso per chi si sente un invertebrato. Il suggerimento, del mio, ora, ex amico, mi ha urtato. Perché con il suo candore da rompiballe ha svelato un mio limite. Non posso essere normale perché non ho una vita normale.
Mentre il silenzio si dilata e l’imbarazzo suo esce dall’auricolare gelatinoso come il blob, penso alla mia non normalità. Alla mia famiglia fatta di 5 figlie, di svariati colori. Alle mie serate da naufrago tra tisane, un oceano di pannolini e coccole. Le mie piccole mi assorbono così tanto che sono più casto di un monaco benedettino. Poi il resto, gli zii imbarcati cammin facendo, che vivono sempre nella mia grande casa. Giampi che ha fermato il suo orologio negli anni settanta. Ascolta ancora le musicassette, gli Abba e passa le mattinate a scroccare caffè e ad imbrattare centinaia di puzzle ( chi sa cosa sono, oltre i cartoncini da incastrare, i puzzle?). Poi Vior, con il suo girello o ferrarino, che mi travolge con centinaia di assurdità che portano in sé la saggezza di chi è semplice. “Beati ti” mi ripete nel suo rumeno mischiato ai dialetti della provincia. Stefano, che mi aggiorna sui movimenti gastrointestinali del mattino, finché bevo il caffè. Poi alla sera, durante la cena, mi racconta l’esito delle restanti evacuazioni, mettendola sul filosofico però, per arrivare a chiedermi alla fine un ritocco di sigarette. Lo sappiamo entrambi che poi va a finire lì. Piace a lui e va bene a me. È il nostro palese segreto. Poi la Samy, plurilaureata, che viene a chiedere a me delucidazioni sugli assorbenti. Ancora, Clement, dalla Nigeria per annunciare la mondo il Verbo. E alla fine il Cavalier Devasta, detto anche Kami ( da Kamikaze ) oppure Fasti ( da fastidio cosmico ) che appena lo vedo nell’arco di un nano secondo mi fa passare dall’incazzatura più feroce ad un bene misericordioso di cui io stesso mi stupisco. Alla fine mia moglie, che si muove come una scheggia impazzita, per resistere, resistere, resistere. A volte, inopportuno come un peto in ascensore, mi soffermo a guardarla innamorato, per quel che sono capace. Mi trafigge sempre con gli stessi occhi di Atahualpa e sembra dirmi “descansate niño, che continuo io”. E questo mi parla di normalità! Ondate di goliardia senza pretese, di stranezze quotidiane, di brava gente e ruffiani, di poveri e di coglioni, di speranza e furberia, questa è la mia normalità! “Non te la sarai mica presa, vero?”. Bonariamente rispondo: “No, scherzi, anzi, un po’ di idiozia, mi riporta alla normalità delle cose, senza offesa vero”. “Bene, a presto e scrivi ancora, mi raccomando”. Se ora mi leggi amico mio, cosa che dubito, un fraterno invito a defecare nell’infinito non senso dell’esistenza e che la materia oscura imbratti le tue mani affinché lascino un segno nel cosmo e nella storia. Amen

Mi dedico un ritratto di Atahualpa Yupanqui, che non c’entra nulla, ma è un grande.
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Per esagerare

Amanti di strada

Ci sono alcuni amori clandestini ammessi. Non fedifraghi nella sostanza. Uno di questi è il mio. Io e la mia ragazza oggi ci siano presi un paio d’ore di passione. In questi mesi ci siamo visti un paio di volte. Io, assorbito dalla famiglia, gli impegni, le ricorrenze. Lei è rimasta buona, in attesa, ad aspettare il suo uomo per una cavalcata per un’esplosione d’amore. Mia moglie lo sa, conosce questa mia debolezza, la sopporta benigna. Forse pensa siano gli ultimi colpi di vitalità di in uomo sazio, sereno e che ha voglia semplicemente di un diversivo, di una galoppata a ritroso nella gioventù, di un’amante discreta ma responsabile e che non metta in discussione nulla. La mia ragazza, se pur silenziosa, quando l’accendi, sa il fatto suo. Ha i suoi anni, rispetto alle altre è sicuramente démodé e un po’ appesantita. Ma sulle lenzuola su cui consumiamo il nostro amplesso, ha un ruggito rispettabile. Il tiro è quello dei suoi anni migliori, come il suo canto, rauco ma irriducibile. E non si stanca. Per ore, io con lei. Io e lei e la strada, il caldo, gli scarichi nebulizzati sulla mia pelle e su di lei, gli insetti maledetti che si schiantano imbelli, senza speranza. Ma noi siamo un tutt’uno, una sola carne, un solo meccanismo ben lubrificato e rodatto. Noi due, la strada e le sue perpendicolarità, il fruscio e la solitudine. Chi non possiede una motocicletta non può capire la libertà che si può immensamente contenere in 900 cc. Ai motociclisti di tutto il mondo, che incrociandosi alzano le dita in segno di rispetto, un’opera futurista. Perché la motocicletta è avanti, cantata da poeti e cantautori, perché la moto sarà sempre prima… Finché non piove. Giacomo Balla, “Velocità di una motocicletta (studio)”

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Piccolo mondo antico

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A volte succede. Ti prepari velocemente per arrivare trafelato e sudato ad uno dei tanti incontri dettati dall’incarico amministrativo, sottomesso stoicamente alla routine, ed invece vieni baciato dalla sorte, dalla generosità del destino. Tre giorni fa ho vissuto un’esperienza mistica. Forse è troppo definirla così, ma non costa nulla…. Diciamo che ho passeggiato in carne ed ossa in un quadro, anzi nell’estetica di un artista: Paolo Caliari detto il Veronese. Ieri poi, quasi condotto da una mano invisibile, ho visitato la mostra in Gran Guardia a Verona ( http://www.mostraveronese.it ), ben curata e con un ottimo catalogo, dedicata appunto al Veronese. Lì il cerchio si è chiuso. A Villa Baja Guarienti a Tarmassia è iniziato però un viaggio. Grazie alla padrona di casa, di una sensibilità ed intelligenza che giustificano l’effige della nobiltà, mi sono immerso nella storia della sua famiglia, dal seicento, con la discrezione di chi calpesta con cauta reverenza il tempo e suoi frutti. Il richiamo al Veronese non è scoccato dalle stampe sparse qua e là delle sue opere più famose. Neppure dalle grandi tele, inscurite dal tempo, di artisti minori evocanti la monumentalità della scena, i panneggi e il dettaglio del pittore del lusso veneto. Il rimando è venuto dal silenzio, che ti pervade nelle stanze della Villa. E l’ho rivissuto nei saloni della mostra. I quadri del Veronese sono una celebrazione della non parola, della rappresentazione articolata, particolareggiata, complessa e lussureggiante, ma muta. I suoi personaggi sono presi da un’estasi di realtà a causa della quale non riescono a proferire parola. Anche a Villa Baja ho provato la sensazione di un blocco del parlare, dell’eloquenza. Anche lì regna un universo pieno di dettagli, richiamante altre epoche, composto con grazia domestica ed immerso in un silenzio quasi sacrale. Da Tarmassia, la frazione in cui la Villa vive con discrezione, a Verona, con il Veronese, con i suoi quadri, in una mostra piacevole, con delle sorprese.
Al tempo che matura nella villa e alla minuziosa tensione al particolare dei quadri della mostra dedico questo mio stato di intimismo. E mi dedico “La cena a casa di Simone”, presente in mostra, con la sua folla silenziosa e la cura nel riprodurre il quotidiano e le scene della vita.
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Disnare malinconico

Non era ancora mezzogiorno e sono stato preso, oggi, da un angoscia strana. Inconsueta. Ho imparato a convivere teatralmente con questi stati d’animo indecifrabili, dissimulandoli sia a chi mi sta attorno che a me stesso. Visto l’orario avrei potuto pensare ad un attacco repentino di fame chimica, la chimica dello stress ovviamente… Ma la fame è un’emozione quasi dimenticata. Penso, in questi momenti, frequentemente a Cesare Pavese, ai suoi falò e alle sue lune, al suo soffrire da mestierante dell’esistere, da maniscalco raffinato del vivere. Mi dedico una sua poesia. Alla speranza e all’arte del sopravvivere ai gorgoglii, a noi stessi.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Pablo Picasso, titolo reinterpretato da me medesimo…“Riemergere di un viso morto”

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Licoldi lontani

Giorno di festa paesana. Anzi sagra, come si dice nella mia lingua del cuore. Giorni in cui la vita rallenta e il paese si trasforma, si veste di un’aria trasognata, che si ha solitamente dopo una sbornia. Mi capita da anni, in queste giornate intensamente paesane, di intraprendere viaggi memorabili nella Memoria. Ma devono essere innescati da un qualcosa. Il casus belli del viaggio odierno, che ora vi racconto, è questo: Casualmente mi sono fermato in uno dei bar della mia infanzia. Entro nel bar con lo spirito gagliardo con cui ci entravo da ragazzo, quando con la mia vespa special ingrossavo sterminate distese di piccoli bolidi truccati. Entrato mi accoglie un cinese magrissimo dallo sguardo infossato che mi dice in una lingua impossibile “plego ?”. Dopo un primo impulso di risata, sono precipitato nella nostalgia. Mi sono guardato attorno, la vecchia osteria era spoglia e deserta. Anzi, peggio, silenziosa… Il barista un po’ ebete aspettava il mio segnale, ma con il pensiero frugavo nelle immagine e situazioni accatastate nella memoria. Ho rivissuto il baccano dei miei tempi alimentato da futilità ed oscenità. Le risate grasse degli avvinazzati che rivendicavano una presenza che non fosse contorno. I calendari osé appesi in giro e nel bagno quello di Selen fermo perennemente al mese di febbraio. Nel cesso si era fermato il tempo e la turca sembra inghiottire le ore dei maschi frequentatori, dalla mira scarsissima. Non c’erano slot ma il calcetto e il bigliardo ed una coltre di fumo che ci rendeva tutti uguali. La volgarità poteva quasi essere letta come poesia. Il canto del macina caffè, il ripiano pieno di “tazze” di bianchetti, unte già prima di essere bagnate dal vino proletario che impastava gli aliti dei vecchi con le sigarette e le bestemmie. E poi il bancone, pieno di uova sode, pane e cotechino, nervetti, bocconcini con la “bondola” e i boero, straripanti dai grappoli maturi color rosso luccicante. E le bestialità delle parole inutili che uscivano da chi pontificava, che duravano, nella loro assoluta e vana verità, l’intervallo tra un bicchiere e l’altro. Ed io, ancora bambino ma con la sfrenata voglia di essere uomo, che avrei voluto mangiare le patatine, ma non era virile… Finché il pensiero navigava a vista nei ricordi, il barista, con la grazia di chi fa un lavoro per cui non ha la vocazione, mi chiede ancora “plego?”. Io “scusi, il bagno? “. “Fuoli selvizio”. Andate a cagare! Non potete profanare così il contenitore dei miei ricordi da osteria…. Ridatemi il frastuono insopportabile, i vecchi ululanti, i bicchieri tintinnanti, l’odore di fumo e sudore, i giornali spiegazzati, il disordine accogliente e la vetrina con gli specchi, con Padre Pio in compagnia della Madonna e della nazionale del mondiale ’82, piena di liquori, disposti come reliquie. Ridatemi tutto questo e tornatevene a casa. Qui sarete solo tristi ed incompresi…. Ma il mio pensiero viene confuso ed ora mi si guarda in cagnesco. “Plego?”. “Un caffè grazie.” Mi dedico un quadro Pietro Borettini, che ha l’amalgama e l’intensità scenica di Brugell il vecchio. L’unica osteria ammissibile è quella rocambolesca inscenata nel quadro. I caffè parigini degli impressionisti o quelli letterari dei macchiaioli non mi sono mai piaciuti. L’osteria è il caos, fatta da gente pasciuta, che parla una lingua imperfetta ma conosciuta. Pietro Borettini (Pédar) Viadana, 1928.

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Onnipotenza odontoiatrica

Oggi seduta dentistica. Ad una certa età i denti si frantumano come bom bom zuccherosi. Sdraiato sul lettino mentre il mio amico strappadenti mi invadeva la bocca con le sue agili mani, pensavo a come sia semplice e repentino trovarsi fragili e deboli. Tra aspiratori e raschiatoi metallici ho cominciato a focalizzare che forza e debolezza non sono cose che esistono di per sé, ma esistono per l’assoluta mancanza di una rispetto l’altra. E da questa semplice considerazione si arriva subito alla conclusione che tutti siamo potenzialmente ed irrimediabilmente deboli. Senza accorgersene. Senza preavviso. Come una carie che fa il suo lavoro sigillata da un’otturazione. Un mattino, bevi il caffè, si sbriciola in bocca un dente e scopri un canyon. E fa molto male. Da uomo che non deve chiedere mai a vittima del dolore perforante, da forte a sofferente, da indipendente a debole. E lui, l’odontoiatra, può salvarti con la sua forza. Non credo sia stata l’anestesia a farmi vaneggiare col pensiero. Ma lo sguardo in un quadro, del protagonista, il cavadenti, mi è fisso nella mente: uno sguardo delirante, di potenza pura. E il poveraccio dolente, succube, debole, trepidante, inerme, quasi a supplicare. L’incrocio dei loro sguardi da la misura del rapporto tra la potenza e la debolezza. Il Cavadenti, di Gerrit Van Honthorst

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Jazz e salsiccia

Capita che ogni tanto si venga travolti da una serata piacevole, perché non catalogabile. Una serata da cui non ti attendi nulla e godi di ogni rivolo di sanguigna leggerezza, che spesso si concentra nei bicchieri lubrificati dal vino. Come questa sera. Simposio casereccio, con concorso gastronomico in salsa jazz. Bello. Tante facce sorridenti, con sincerità o finzione che viene dal buon cuore o dalla buona educazione. Ma il jazz… Con il suo febbricitante battito stridulo. Jazz e risotto, cornetta e salsiccia. Ci sono livelli alti e bassi in ogni cosa: nella letteratura, nella musica, nel teatro. Non si tratta di qualità ma di tonalità, di atmosfere. Tutte portano un carico di suggestioni. Manzoni o Garcia Marquez, Cervantes o Leopardi, Fitzgerald o Joyce …? Tutto, ma con vini diversi. E con il jazz, in questa cena da inizio millennio, che consorzia una brigata di umanità varia. Il jazz, acre come la cipolla sulla quale si stende la carne e si sublima il maiale. Il jazz pastoso, come il riso mantecato, gaudente e spossato nel grana padano. Il jazz speziato come la cannella, che pizzica e ti scarica nella lingua un eco africano. Trascinante come l’invenzione e l’improvvisazione, come il pesto del suino che riconduce tutto a sé. Il jazz acuto come i profumi spessi e corposi della cucina veneta. Profumato come il Valpolicella, delicato come il Soave, robusto come il Recioto, frizzante come un prosecco gelato.
Il jazz è vivo, come il maiale, come il riso, come le ruvidità del sangue, dell’ebbrezza, dell’eccesso. A questa serata e alla fantastica orchestra Gabriele Bolcato Quartet, un’opera dal sapore forte, come la salsiccia che fa l’amore con il riso.
Giancarlo Cazzaniga, Suonatori di Jazz

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