michele casella

Diario minimo

Vladimir Majakovskij

Alcuni poeti sono semplicemente maledetti. Maledettamente poeti. Il signor Majakovskij ne è un fulgido e nel contempo torbido esempio.

Avatar di internopoesiaInterno poesia

vladimir-majakovskij-

Conclusione

Niente cancellerà via l’amore,
né i litigi
né i chilometri.
È meditato,
provato,
controllato.
Alzando solennemente i versi, dita di righe,
lo giuro:
amo
d’un amore immutabile e fedele.

da A piena voce (Mondadori, 2000), a cura di G. Spendel

View original post

Morirò a maggio

silvestro-lega-che-dipinge-sugli-scogli-fattori

Capita che per strani motivi si facciano viaggi inutili. Parti con un programma, poi per tutta una serie di circostanze, si viene condotti altrove. Così è stato per noi. A Torino, per una mostra su Modigliani, attesa, quasi sognata, deludente. Come spesso accade, le delusioni portano benefici insperati. Non sempre, ma a volte accade.

Vagabondando per la città torrida ed esoterica, aspettando un treno, con Debora iniziamo a parlare. Cose inutili, discorsi abbozzati e subito sciolti dal caldo.

Ad un semaforo, spossati. Aspettiamo il verde. Dietro ad un anziano, con il bastone, un uomo vestito di saggezza. Aspetto il momento per partire. Il vecchio parte ed io lo seguo fiducioso, senza pensarci. Uno scooter a velocità pazzesca mi sfiora, ho sentito il sibilo della morte sfiorare le mie chiappe. Sono frastornato.  Ho seguito il nonno, una persona saggia, prudente! Forse un po’ rincoglionita. Il caldo africano come attenuante,
Sta di fatto che è tornato a galla il pensiero della morte. Un pensiero che ogni tanto mi visita, senza creare grande fastidio.

Una compagnia che genera vita abbondante, riflessioni. Da tempo nel mio taccuino tengo delle bozze, una poesia sulla morte. Ho immaginato la mia. Una bella esperienza, di grande fecondità.
Tornando col treno l’ho rifinita. L’ho resa viva. Grazie al caldo, ad un vecchio apprendista suicida, e al tremore di un incontro ravvicinato con la carena di una moto, sparata a tutta velocità sull’asfalto tremulo, infernale.

Morirò a maggio
Sotto l’acacia ombrosa
Piantata da mio padre.
Lo farò col poco garbo imparato,
Apparendo pronto, non rassegnato.
Staccherò il biglietto per il viaggio,
Senza il clamore, senza il cuore impavido
Dell’epifania e dei suoi falò,
Che ho sempre sperato di custodire nel petto,
Ma che ora, tutto sommato, non serve più.
“Casella, un po’ di contegno!”
Sbotterà la grassa rosa,
Quella bianca latte,
Da mia madre coccolata
Con disordine e cura.
Il titolo per il viaggio, per il “diretto”,
Lo consegnerò col dovuto rispetto,
Senza fronzoli, senza inutile omaggio.
Morirò prima del caldo, prima delle sieste assolate
Prima che gli insetti molesti invadano il meriggio.
Sarà mia, solo mia la gioia galeotta
Di chi ha respirato la primavera,
Con la sazietà dolciastra,
Del vino di cantina, del formaggio e del pane.
Appoggerò il pianto serbato, oramai liquoroso,
A sgabello dei miei piedi dalle unghie spesse.
Sfilerò il fazzoletto,
Quello a righe della festa
Custode dei miei tesori.
Li terrò nelle mie mani da vecchio studente,
Coccolandoli con le ciglia,
Prima che la luce si spenga,
Il tramonto mi accolga
Come una giacca stretta,
E le tenebre tirino il grosso chiavistello
Della mia nuova casa.
Solo Venere ancora a farmi da lampada.
Avrò gli occhi forse un poco lucidi,
Poco prima di calare il sipario.
Sulla scena del mio ultimo applauso,
Rivedrò a batter le mani in piedi,
Osannanti,
Le Occasioni, i fatti salienti,
La gioia ordinaria, l’anonimato dei giorni,
Il logorio della delusioni
l’inconsapevolezza della fine,
Svanita d’improvviso come le foglie dal salice.
La Gratitudine mi lascerà lì ancora un paio di minuti,
Poi le ultime cose,
Pesare ciò che resta della voglia,
mischiarla con un po’ di tabacco e meraviglia.
La gloria rimasta
Nei capelli stanchi
Mi scivolerà giù,
Accarezzando le orecchie molli,
Non più turgide, che impazzivano
Tra le dita eccitate delle mie bambine.
Prima del tracollo vorrei sentire
La voce di mia moglie, che mi chiama per la cena,
Mi sgrida per le tante fragilità che ci hanno reso forti.
Vorrei sentire ancora la sua voce
Prima di passare il ponte.
Arrivato, accendere il sigaro buono,
capire chi aveva ragione,
Sgridare bonariamente chi ha fatto troppo silenzio,
Sedermi ancora e cominciare a ridere.

wpid-le-coucher-du-soleil-la-seine.jpg

Nel retrobottega di casa mia, scostando tralicci spinosi, Scìe chimiche come spighe, Ancora sudicio, Faccio maggengo Delle conclusioni Della prima metà del raccolto. Vaglio la materia spuria, La gramigna lanceolata, L’equiseto tessuto di rimpianti, Il cencimolle bastardo E l’ inutile senza nome. Ho messo lo sfalciato Al sole, E faccio un bilancio. Sono rammaricato, Non […]

Il merlo notturno

Il merlo passeggia guardingo
Dove ieri sera la luna poneva,
Con fare lucente,
Le sue pene, i vizi ed altri bachi
della sua astrale mente.
Il merlo non sa
Che le gracili sue zampette
Solcano la dolcezza lattiginosa
Del bagliore fresco di maggio.
Cerca distratto tra l’erba,
Vermi e ad altre leccornie
Saccente, forse saggio.

image

Non si cura del mio peso,
Del mio osservare inatteso
Il mio scrutare curioso
A me stesso, a volte, odioso.
Fa ciò che è necessario,
Per superare un’altra notte,
Un altro bagno di luna,
Un altro fluire di primavera.
La natura vive fiorente
In un disegno
Che non possediamo,
che non comprendiamo,
Persi come tordi,
A capire degli altri,
Gli epiloghi e gli esordi.

Haiez e la sensualità dell’incazzatura

I pittori italiani dell’Ottocento sono figli di un dio minore. Esempi straordinari come Fattori, Signorini, Cecioni dimostrano quanto ancora di pregiato possa celarsi nella disattenzione. Gli anni del Risorgimento e Post-unità d’Italia sicuramente sono noti per altri fatti, più di natura politica, letteraria. L’arte figurativa è rimasta sepolta sotto le macerie di un cambiamento geopolitico immane. Gli Asburgo furono cacciati, col loro mondo di rigorosa nettezza borghese e nasce qualcos’altro, una sensibilità provinciale con la voglia di emergere e di imporre una cultura percepita come nuova, distintiva, sovrana a casa propria. I nostri artisti non sapevano più “essere moderno senza essere stranieri” né “essere italiani senza essere di un altro secolo“. Questo non è stato semplice. Tempo, influssi esterni assimilati profondamente e la mancanza di riferimenti in casa di estrazione moderna, hanno delimitato il percorso in un incubatoio che ha potuto germogliare sono nella Parigi in fase di decollo verso la Belle Epoque. In italia, lavoro di bottega, grande cuore e poca fama. Andavano fatti gli italiani, un pubblico che sostenesse l’arte della nuova nazione. Qualcuno che la capisse magari.

IMG_1577
Odoardo Borrani. Le cucitrici di camicie rosse (1863 )

Forse solo Telemaco Signorini, all’inizio, non naviga a vista e traspone artisticamente questa composizione identitaria nazionale, questo work in progress, che non disdegna il tema sociale, la natura e le sue macchie, il travaglio di chi sta nascendo, una nazione con una grande eredità ancora da riscuotere. Dipinge la “realtà” grazie all’adattamento nostrano del Realismo francese. L’esperienza verista, l’ispirarsi al “vero” in quegli anni, è di per se in atto rivoluzionario. Pensare all’esperienza dei Macchiaioli come ad un percorso di unificazione ( dalla macchia all’intero ) è suggestivo a parer mio.

250px-Telemaco_Signorini,_La_sala_delle_agitate_al_San_Bonifazio_in_Firenze,_1865,_66x59cm

Telemaco Signorini, La sala delle agitate al San Bonifazio in Firenze, 1865

I colori del Risorgimento sono cangianti di patriottismo. Tinte cupe, funebri, colori vivaci e densi solo quando si riporta la bellezza della terra patria in mano ad altri, non libera, non unita. Il cromatismo risorgimentale è triste.

IMG_1575

Ippolito Caffi, Bombardamento notturno a Marghera del 25 maggio 1849, Venezia

IMG_1581

Giuseppe Abbati, Campagna a Castiglioncello (1863 )

I toscani in questo ricerca di tonalità e di originalità sono dei precursori. Gli stantii fasti del Granducato e la presunzione di una eredità culturale attorno alla quale costruire l’Italia, li anima di una verve più prolifica. Fattori ne è l’emblema: artisticamente dimesso nei toni ( sembra che nessuna dei personaggi ritratti sappia cosa stia facendo ) ma raffinato nell’esposizione, rappresenta quel l’avvio di linguaggio nazionale apparentemente sperimentale, in cui si evidenziato delle potenzialità straordinarie. La forza degli illegittimi: In realtà si tratta solo di una paternità incerta da ricercare, da riscoprire, di rivendicare. Il Risorgimento è questa ricerca di paternità artistica.

G.Fattori-battagliamagenta

Giovanni Fattori, Il campo italiano alla battaglia di Magenta, ( 1861 – 1862 )

Hayez tra tutti questi è il meno dotato. Accademico da poster, da serigrafia Pop ante litteram. Scontato come un souvenir. L’ho conosciuto in uno dei miei primi turbamenti erotici. Da bambino una statua con un giovanotto avviluppato attorno alla ragazza che bacia, ha sempre destato la mia curiosità. Soprattutto perché i volti erano celati dal loro amore. In un recinto di visibilità assoluta un manifesto di intimità. La mediocrità può partorire dei capolavori. Ed io sono sempre stato travolto dalla forza che si può celare sotto di essa.

IMG_1576

Francesco Haiez, Il bacio ( 1859 )

Concludo con quest’opera. Famosa è presente nella mia Verona. Ve ne sono due versioni. La ragazza, personificazione della patria, dell’Italia, della storia nostra, ha negli occhi l’incazzatura di chi è stata violata. Lo sguardo fiero che ti fissa quasi a dire:”puoi fare di me quello che vuoi, ma non mi avrai mai”. La sensualità della bellezza che non si piega, della fierezza di chi sa perdere senza piegarsi. Lei é la personificazione della forza degli italiani, che alla fine risorgono sempre. Questa oltre che un’affermazione è un auspicio per il presente e per il futuro.

Hayez

Francesco Hayez, Meditazione, 1851

Cosmologia artistica: breve trattato sull’arte, chiave interpretativa dell’Universo

ALCHIMIA-POLLOCK

È evidente che il mondo sta procedendo in modo irrefrenabile nella sua corsa entropica verso il disfacimento. Anzi, mesciando altre teorie, verso la “ricreazione”. L’universo non è votato all’autodistruzione, procede inesorabile ad un qualcosa “altro” che non possiamo concepire. In questa pillola ci sta dentro ogni teoria: quella del “Tutto”, della “Generazione continua”, “L’eterno immobile” e del “Sommo orologiaio”. Troppi virgolettati, ma sono un principiante del pensiero. Noi cosa ci facciamo su questo veliero alla deriva nello spazio-tempo? Siamo semplici clandestini che possono mirare i flutti dell’eterno senza comprenderne il senso? Alcuni strumenti per intrappolare nello scibile questa immane vicenda dell’evolversi del tempo e dello spazio ci sono stati dati. Voglio parlare brevemente solo di alcuni: la linea, il colore e l’occhio.
La linea è una codice umano, non esiste in natura. Grazie ad essa però possiamo delimitare virtualmente lo spazio. Lo possiamo contenere al fine di una possibile traccia. Dargli forma, recintarlo, antropomorfizzarlo. La linea fissa razionalmente la percezione dello spazio. Lo fa dapprima imprigionandolo, poi reinterpretandolo in uno slancio di assoluto. È una causa ed un effetto: l’esigenza impellente dell’uomo di decifrare e nel contempo, dopo un percorso di astrazione, liberare il visibile, con il segno, travestendolo in pensiero. Dalla razionalità rinascimentale all’astrattismo, dal turbinio barocco al neoclassicismo, tutto si può fissare in una lotta interpretativa dello spazio, nel tentativo di contenerlo nella mente occlusa dell’uomo. Piero della Francesca e Canova insegnano.
Poi c’è il colore. Questo è la sintesi della luce e della materia. Cos’è l’universo se non luce e materia? L’uomo è una delle creature privilegiate. Può percepire il mondo sensibile a colori. Molte altre creature non sono attrezzate per vivere questa esperienza. Qual privilegio! La nostra vita come dono cromatico, come esperienza della luce che impastandosi con la materia, genere se stessa. Il colore è il timbro del tempo sulle stagioni, l’alfabeto del sensibile infinitamente vario e del percettibile alla mente limitatamente eterno. Il colore basterebbe a se stesso per una rappresentazione della realtà. Ma resterebbe eternamente solo, malinconico. Ma il colore può peccare di autoreferenzialità. Eccone le prove. La pittura materica dell’ultimo Tiziano, macchie di colore stese con le dita, El Greco con la placche cromatiche della sua espressività trasognante, Rubens e l’approssimazione della luce sviluppata con il colore. Sino ad arrivare agli impressionisti, Seruat e il divisionismo, sino a Mondrian, il blue di Yves Klein, Rothko e i suoi monocromi spirituali, tutto l’espressionismo zolloso e maniacale di Pollock, sino a “Le Gros” di Franz Kline con la sua linea di colore, tratto dell’individualità della pennellata, stigma del Novecento. L’esperienza cosmica del cromatismo, dei suoi elementi materia e luce, è avvincente.
Arriviamo all’ultimo compagno di merende: l’occhio. Senza di lui sarebbe la notte, una notte senza stelle. L’occhio é la finestra del pensiero. Solo grazie a questo, trova un senso l’arte Concettuale, quella Povera, Land Art e Minimal Art e il Melting Pot.
Tutto questo per affermare che l’universo è un’immensa opera d’arte, che con la linea, il colore e grazie l’intercessione dell’occhio, possono essere possedute in modo fittizio ma carnale. Ma l’uomo questo non lo capisce, condannato a sbranare senza conoscere l’essenza.
Cinque opere che rappresentano questo pensiero.
Una raffigurazione del cosmo, con la tangibile esperienza della linea e del colore: Vasilij Kandinskij, Ognissanti I, 1911
yellow-red-blue-Kandinsky-giallo-rosso-blu
Piero della Francesca e la linea: Flagellazione di Cristo
Piero,_flagellazione_11
Cattelan, il Dito. L’occhio viatico del pensiero.
il dito
La solitudine dei punti e del colore: Study for ‘The Channel at Gravelines, Evening’ – Georges Seurat

study-for-the-channel-at-gravelines-evening-1890
Tiziano, autoritratto, particolare. L’occhio, la luce e la ricerca della linea.
175335526-e4172674-eb43-4fc8-a3fb-b4ebf85dcde9

 

Alla prossima.

Tutte le donne della mia vita

A mia nonna
Che mi ha cresciuto
Con la durezza dei contadini
Ed il calore
Delle lenzuola felpate.
A mia madre,
Che mi ha rincorso per anni,
Ed ora mi aspetta,
Per un pomeriggio,
Per un po’ di fresco,
Nei suoi grandi occhi lucidi.
A quelle che ho amato,
Tra il serio e il distratto
Hanno dipinto di giallo
un angolo della mia storia.
A Debora che mi accolto
Con tutta la fragilità del mondo
E mi ama con tutta la forza delle donne.
Grazie alle mie stelle,
Che luccicano in un cielo inquinato di luce:
A Maria Chiara che mi consola,
A Benedetta che sorvola il mondo,
A Miriam e alla sua forza
E Rachele che mi guarda
Col suo musetto tondo.
A Sosina,
Che cambia tutto in meglio,
E segna le coordinate
Della giustizia che mette radici
E della pace che regna.
A tutte le donne della mia vita,
Quelle amate, sconosciute, stimate,
Passate come la neve marzolina,
Tenaci nel ricordo, feconde nella vita,
Come la terra inviolata.
Grazie, con la gratitudine del ramo,
Ad aprile, dopo mesi di brina.

image

Carnevale Alieno

Carnevale di mezza quaresima. Gli ortodossi direbbero che si tratta di un frutto fuori stagione. Si tratta invece di una grande occasione. Gli eventi inattesi sono premesse  minime per le rivoluzioni cosmiche. Dico questo perché oggi, impalato a salutare le mie bambine sul carro dal marciapiede affollato di bizzarria, dopo aver deglutito la mia dose giornaliera di coriandoli ( avrete certo notato la facilità con cui si infilano ovunque? È incredibile! ), ho fatto un viaggio della mente incredibile. Un trip direbbero alcuni dei miei famigliari più sgamati. Nel bel mezzo della bolgia, mi sono sentito magnificamente solo, e quasi d’incanto si è aperta una voragine spazio temporale tra me è il Tutto. Non ho esagerato con gli alcolici, pur avendone licenza. Ma nel bel mezzo del carosello, con la banda musicale vestita da messicani, magiorette attempate che vagavano un po’ confuse davanti a carri di un kitch travolgente, con musiche latino-americane amplificate a tal punto da sentirsi sino su Venere, bambini festanti e piangenti, machi nostrani e starlette sommerse di schiuma, ho avuto l’illuminazione. Non siamo soli nell’universo. L’ho capito perché lo spazio astrale che si è creato ha fatto da eco ad una voce lontana, anni luce, forse su un altro pianeta. Non ho capito letteralmente, ma dal tono divertito sicuramente chiamava altri a venir a vedere lo spettacolo pop che si stava consumando in un minuscolo paese della pianura padana. Contatto possibile grazie ad un imbecille, il sottoscritto, che in mezzo a quel casino pensava all’universo. Non sto scherzando: ho avuto la percezione certa che si fosse stabilito tale canale. Ho sentito lo sguardo divertito di un extraterrestre, che fissava incuriosito la carovana festosa, gli avvinazzati improvvisare simpatia e strabordi di verità, gli adolescenti molestare altri adolescenti ( di sesso opposto ) nel gioco eterno del corteggiamento travestito da scherzo puerile. E i suoi occhi ( sempre che l’entità aliena li abbia ) erano languidi di tenerezza e voglia di capire, come quelli di un bambino davanti ad una coppia di pesciolini rossi che copulano ( sempre che lo facciano ) nella limpida boccia d’acqua. Quel guardare mi ha attraversato e nel farlo ho sentito che non sono solo, anzi in ottima compagnia. Stupendo! Pensiamoci bene. Possibile che ci sia solo questo, piccole gioie, sofferenze e fatiche, eroismo e banalità? Come possiamo credere che le cose che si riproducono con diverse sfumature in spazi diversi del pianeta, che alla fine si rifanno sempre all’uomo e ai suoi eccessi o recessi, siano uniche. La creatura che spesso rappresentiamo in modo imbarazzante ha prevalso nella gerarchia naturale, ma siamo le uniche dotate di pensiero ed umorismo nello spazio interstellare? Chi ha un minimo di ragione non può contraddirmi. Immagino una carovana di carri allegorici spaziali, ballerine dalle forme inconsuete ballare su un altro pianeta, scimmiottando la tenerezza prodotta da quegli individui pallidi che abitano il pianeta Terra. Lo scrivo anche se credo che alcuni inizieranno a dubitare della mia stabilità mentale. Ma in fondo siamo carnevale. Ragionevoli sbavature sono concesse.

image

Consolazione

Dopo tanto sono riuscito a sbloccarmi. C’è voluto del tempo. Ho dovuto fare alcuni conti con chi o cosa conduce discretamente il nostro cammino. Ho sindacato a lungo per accettare quanto la vita possa essere crudele. Ho cercato tenerezza in quel che ho, toccando il limite delle occasioni che ci sono concesse. Ho fatto questo con la voglia di superare tutto. Ma il dripping sfacciato della morte mi si spalanca davanti ogni volta che chiudo gli occhi e sono solo. Sono semplicemente debole o troppo umano. Mi sono aggrappato alla vita perché non so affrontare una fine orribile, senza senso, che travolge degli innocenti.
Ho dovuto scrivere tutto questo per liberarmi di un peso, per solcare ancora, con la lentezza che infligge una slogatura, il sentiero delle possibilità . Ho ritrovato la poesia a dettare la storia, l’arte a consolarmi. Per chi mi ha capito e sa di che cosa parlo, un quadro insolito di Munch: Consolazione, 1907, olio su tela

65consol

Nonsense

IMG_3109

Non dispiace l’idea di scrivere su un vecchio quadernino il post che poi pubblicherò sul blog. Sembra quasi un nonsense. Di certo è un’involuzione tecnologica. Anzi, è un dono della provvidenza, della sorte o del genio della lampada, questa possibilità di rivivere, inaspettatamente, sensazioni fisiche sepolte da anni in un cassetto dimenticato della memoria e della pelle. Per tutta una serie di circostanze, in questi giorni, mi sono più volte ritrovato testarmi con la scrittura a penna, su carta, solcando le righe di un vecchio residuo delle scuole elementari dello scorso secolo ( temo che l’oggetto fosse addirittura mio ). È stata una bella sensazione.
La carta porosa che accarezza le dita mentre trascino la biro, la penna che affatica le dita, quasi inesperte. La paginetta giallognola che scivola con tutto il quaderno un po’ ovunque.
Anni ed anni che non mi cimentavo con questa “gentil tenzone” creativa. A contorno di tutto, la bellezza dei segni infissi dalle scritture precedenti, portate vie con le pagine strappate. Un dedalo di ragnatele da decifrare, da fissare come segni arcani che ci richiamano ad altre parole, ad altri lidi, ad altre vite. Un artificio della Memoria, del tempo, dei suoi ricorsi e delle occasioni sparpagliate.

Il tempo distillato della Memoria
mi attraversa dentro,
scompiglia e scopre come nella stanza il vento.
Certo non sono, ma conservo
tra il disordine organizzato
le iniziazioni, la fragranza dei gesti
il gusto per la lontananza
e le paure di una sentinella
nell’attesa dei Tartari.
I vuoti sembrano gli stessi,
le Ore a caccia d’amore
li hanno tutti ingialliti.
I volti sono avvolti dalla nebbia,
di loro resta forse il refrigerio
e ciò che di loro ho dimenticato
per inciso o per iscritto,
sulle cortecce, nelle tasche
e sulle rive dell’Ade.
La processione di questi,
con l’ordine di un’evacuazione,
interminabile batte le vie
del Ritorno e degli Addii,
tra dogmi, allusioni e costruzioni mancate.
Osservo tutto nel silenzio del buio,
da dietro, in disparte,
come al funerale di uno sconosciuto.